È in discussione alla Camera il disegno di legge sul “Contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato” noto anche come “salva suoli”: da anni il forum Salviamo il Paesaggio (di cui Slow Food Italia fa parte) lavora per arrivare a un testo legislativo davvero risolutivo su questa emergenza, lanciando appelli e iniziative per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni in modo da fermare definitivamente il consumo di suolo libero nel nostro Paese. Eppure, nonostante questi sforzi, il testo inviato alla Camera è ben lontano dall’essere davvero efficace e sembra che le istituzioni non abbiano inteso la gravità della situazione.
Per questo abbiamo chiesto a studiosi ed esperti perché tutelare il suolo è così importante. Ecco la nostra intervista a Claudio Arbib, professore ordinario del Dipartimento di Ingegneria e Scienze dell’Informazione e Matematica dell’Università dell’Aquila.
Perché dobbiamo preoccuparci di tutelare il suolo?
Viene naturale rispondere con il Vangelo: Il seminatore gettò le sue sementi. Alcune finirono sulla strada e gli uccelli le mangiarono; altre fra le rocce, e disseccarono; altre fra i rovi, e furono soffocate; altre infine nella buona terra, e diedero molto frutto. Ora, le parole del Vangelo dicono quasi sempre altro, e qui infatti non si allude al frutto economico. Tuttavia quello economico è l’argomento speso da politica e media in difesa di certi beni comuni: il suolo (culla dell’agroalimentare), il patrimonio culturale (culla del turismo) producono lavoro e ricchezza; vanno tutelati per questo, perché sono “il petrolio d’Italia”. Per carità, nulla in contrario se si guadagna vendendo ai turisti cibo di qualità, paesaggi e città d’arte; anzi. Però nessuno direbbe che il diritto alla salute o all’istruzione va bene perché è “il petrolio d’Italia”. La giustificazione economica è insomma fuorviante, perché potrebbe far pensare che in assenza di remunerazione si possa fare a meno di preoccuparsi di cose essenziali. Come la tutela del suolo: è per noi stessi e per chi verrà dopo che bisogna fermarne il consumo, che occorre proteggere il paesaggio e la biodiversità che il suolo alimenta. Anche a costo di diseconomie. Noi da diverso tempo viviamo l’economia come un tabù, e in queste condizioni è facile stupirsi (o semplicemente ignorare) che cose come la difesa del paesaggio furono poste dai Costituenti fra i principi fondamentali della Repubblica (Art. 9). Principi, non opzioni legate alla domanda del mercato. Il suolo è il sostegno del paesaggio, ci nutre e al tempo stesso sostiene la bellezza e la cultura profonda d’Italia. Ci dice chi siamo. Dovrebbe bastare questo.
Come è possibile migliorare il decreto?
Premetto che a mio parere il decreto segna un passo avanti. Oggi non abbiamo nessuna normativa a difesa del suolo, e una norma debole è sempre meglio del Far West. Il decreto inoltre ha alcuni aspetti molto condivisibili: anzitutto la declaratoria, che qualifica finalmente il suolo come “bene comune non rinnovabile”. Un altro lato positivo consiste nell’incaricare soggetti terzi (ISPRA e CRA) e non ministeriali del monitoraggio del consumo. Ciò detto, nella versione proposta alla Camera il DdL presenta aspetti non secondari che ne limitano la portata e compromettono l’applicabilità. Si concentra giustamente sull’impermeabilizzazione, ma sembra dimenticare che un suolo si può aggredire in molti altri modi. Una cava o perfino un parco giochi in sabbia non impediscono all’acqua di filtrare, ma devitalizzano un humus la cui formazione può aver richiesto migliaia di anni. Insomma, edificare su un ottimo terreno agricolo in cambio della trasformazione di un piazzale in campi di calcetto non riflette, spero, gli intenti del legislatore. E anche i suoli fertili non sono tutti uguali, così come le pratiche agricole non sono tutte buone: ma è una questione della quale il testo sembra disinteressarsi. Nel dettaglio poi il DdL sembra nascondere diverse trappole, alcune in modo francamente goffo: ad esempio nell’Art. 2, quello che definisce di cosa si parla. Se deroghe devono essere previste, non si cominci da lì! Non si può definire il consumo di suolo “a meno che”. Il suolo si consuma, o non si consuma. La questione non è di mero principio, perché la definizione del consumo stabilisce cosa si dovrà – e sarà possibile – monitorare. Un altro aspetto importantissimo riguarda le norme transitorie e finali: si salverebbero dall’applicazione non solo gli interventi (edili o altro) già autorizzati all’entrata in vigore, ma anche i piani attuativi anche solo adottati e perfino i procedimenti in corso – fra cui rientrerebbe, a rigore, anche una domanda di edificazione semplicemente protocollata! C’è poi la deroga delle deroghe, che esclude dal computo del suolo fertile le aree destinate a “infrastrutture e insediamenti produttivi strategici e d’interesse nazionale”. Infine, immagino a seguito di una certa contrattazione, si registra l’aggiunta di due articoli molto problematici: il 4bis e il 5. Tanto il primo, rigenerazione delle aree urbane, quanto il secondo, compendi agricoli neorurali, hanno l’aria del cavallo di Troia: il secondo consentirebbe ad esempio di cambiare da agricole a non agricole (ricettività, servizi ecc.) le destinazioni dei casali della campagna romana o delle migliaia di cascine oggi imprigionate nei desolanti sprawl urbani del nostro Paese. L’agricoltura, citata nel testo ben 49 volte, penso che meriti un’attenzione ben diversa.
È vero che tutelare il suolo vuol dire mandare in crisi il settore edilizio?
No. Il settore edile va in crisi da solo, perché la sua è una crisi che nasce dalla produzione di beni fuori mercato. Il problema è molto serio e di non facile soluzione: le costruzioni e il loro indotto contano in Italia milioni di addetti e valgono svariati punti di PIL. Ma la risposta non può essere “continuiamo così”: andremmo contro un muro in termini economici, e i sindacati lo sanno bene, al punto da interessarsi ai movimenti per il paesaggio. Purtroppo la risposta non è neppure “costruiamo strade e aeroporti”. Nel suo ultimo rapporto l’ISPRA certifica le infrastrutture responsabili del 47% del suolo consumato, contro il 30% dell’edilizia. Certo, costruire è sempre sembrata una bella soluzione: work-intensive, materie prime economiche. Cioè tanto lavoro e costi bassi per le imprese. Soprattutto quando non si conteggiano seriamente i costi ambientali, cosa facile perché il ciclo-vita degli edifici – per definizione lungo – dà poca evidenza ai costi di smaltimento. Ma costruire significa (letteralmente) polverizzare montagne, da noi o altrove. Significa produrre inerti complicati da gestire: basta pensare all’amianto, al malaffare legato al movimento terra, a discariche e cave che contribuiscono ad altro consumo di suolo. E significa un Belpaese disseminato di capannoni inutili, veri e propri rifiuti non dichiarati e abbandonati nelle campagne. È un problema serio, peggiore delle riconversioni del passato: negli anni ’80 la Gran Bretagna dismise miniere e fabbriche d’auto, nel ’90 noi dismettemmo l’acciaio. Fu tutto sommato più facile, le produzioni inquinanti o poco remunerative si spostarono nei Paesi emergenti. Ma le villette italiane non si possono produrre in Cina. Occorre affrontare il problema con coraggio e solidarietà, prendendo atto di una verità apparentemente ovvia: case e autostrade non sono beni di consumo, e quelle che ci sono bastano e avanzano.