Nell’ambito dell’editoria enologica e viticola esiste un buon numero di dizionari, che contemplano tutti i termini tecnici possibili e immaginabili. Con questa rubrica vogliamo anche noi – nel nostro piccolo – proporre a voi lettori un vocabolario: ogni settimana un termine diverso, seguendo semplicemente l’ordine alfabetico.
Non abbiamo intenzione di considerare il nome dei vini, altrimenti sarebbe facile (A come Amarone, B come Barolo, C come Chianti, ecc., con la scelta quasi obbligata di E come Erbaluce… ), ma non è il terreno che vogliamo calpestare. In verità la scelta del vocabolo settimanale sarà un buon pretesto per parlare di un tema che ci appassiona: nulla di complesso, ma formulazioni semplici e (possibilmente) didattiche.
Sicuramente al termine della prima tornata alfabetica riproporremo nuovi termini, ripartendo dalla A.
H COME HANDICAP TERRITORIALE
È vero che trovare un tema – per questa rubrica, che esce con tempi molto sporadici – che iniziasse con la H non era facile, ma la scelta di parlare di Handicap (territoriale) non è una “furbata” che superare lo scoglio alfabetico della lettera H, ma un tema che ci sta particolarmente a cuore.
Meglio precisare subito cosa intendiamo per “Handicap territoriale”: molto semplicemente che non tutti i territori vitivinicoli e i terreni su cui oggi poggiano le vigne in Italia sono adatti per produrre vino di buona qualità, meglio se da conduzione sostenibile e/o naturale.
Considerazione semplice e facilmente verificabile che però – quando la ripeto ai corsi di vino per principianti – produce grandi “strabuzzamenti” di occhi, perché è considerazione comune, quasi lapalissiana, che chi produce vino lo faccia nelle migliori condizioni territoriali; e invece in parecchi casi non è così.
Un ragionamento su questo tema lo avevamo già fatto un anno e mezzo fa, con la pubblicazione del post “Uno dei tanti pensieri illuminanti che puoi trovare su Porthos 37” (che puoi leggere per intero cliccando qui). In sostanza riportavo una frase, per me illuminante, di Sandro Sangiorgi presa appunto dal numero 37 di Porthos. Ve la ripropongo.
«Il vino naturale non è stato solo capace di smascherare la superficialità dei protocolli convenzionali, ma anche l’assenza di vocazione di centinaia di luoghi. Se gli anni del vino globalizzato hanno addormentato le coscienze e i palati, gli anni del vino naturale stanno tirando giù un altro velo, quello di un’equivoca concezione del luogo come generatore di qualità, quasi che il vino possa essere fatto buono ovunque.
Uno dei motivi per i quali è diventato difficile bere buoni vini è da cercare anche nell’ostinazione a produrre in contesti di scarsa vocazione; e se al tempo dei vini convenzionali alcune mediocrità venivano confuse in un’espressività banale e rassicurante, adesso tutto questo non è più consentito. Fare un vino naturale significa sperimentare un luogo in un senso talmente unico e profondo da non poter generare confusione».
Come già affermato in chiusura di quel post c’è poco altro da aggiungere e semmai meditare a lungo su questa grandissima verità: i vini buoni non si possono fare dovunque. Anche se si è animati dal migliore e più sentito “spirito naturale”.