Poggio di Sotto è un modello enologico e un sistema imprenditoriale vincente. L’azienda, nata solo una ventina di anni fa, è riuscita a imporsi come interprete autentica del sangiovese in purezza. E se negli anni Novanta il vino di Piero Palmucci rappresentava la resistenza opposta alla minacciosa invasione dei sangiovese d’America, dopo appena un decennio, lo stesso Brunello si è trovato a investire il ruolo di padre fondatore della patria enologica, la cui costituzione poggiava sulla capacità dei vini di rivestire al contempo senso di appartenenza e indiscussa qualità.
Poggio di Sotto ha conquistato tutti, appassionati e professionisti; ha conquistato anche me che nei vini provo a ricercare carattere e naturalezza espressiva. Da un paio di anni l’azienda è in mano a Claudio Tipa (Collemassari, Tenuta di Montecucco e Grattamacco) che non ha cambiato di una virgola l’impostazione ereditata.
Proprio per l’affetto riconoscente che provo per questa azienda e le enormi aspettative che ogni anno ripongo nei suoi sangiovese, quasi che dalla loro interpretazione del succedersi delle vendemmie potessi disporre di uno dei termini di paragone fondamentali attraverso i canoni del quale sia possibile confrontare i punti di forza e le debolezze di un’intera denominazione, risulta straniante dover registrare una perplessità nell’assaggio delle ultime due annate di Brunello poste in commercio; la 2007, assaggiata più volte lo scorso anno (e quattro giorni or sono a Terre di Toscana), e la 2008, degustata poco tempo fa a Benvenuto Brunello.
Sono vini che mi sento di accomunare proprio perché recanti le medesime sensazioni a mesi di distanza. Un’espressione aromatica poco definita veicolata da volatile fin troppo evidente che, se nelle monumentali versioni precedenti conduceva un ventaglio di aromi impareggiabile, qui gioca un ruolo oppressivo. La stessa acidità, quasi caustica la avverto al palato dove la proverbiale finezza del vino, una carezza tannica floreale nel mio ricordo, si frantuma nel bruciante finale.
Soprattutto se pensiamo alla versione Riserva 2006, splendida e trascinante, e in misura minore la Riserva 2007 appena assaggiata, nella quale la classe innata sovrasta un tratto acido pericoloso, mi pare di essere di fronte a uno strano caso di personalità doppia che disorienta e preoccupa.
So bene che i giudizi del resto della critica enologica, almeno sulla 2007, sono più che positivi. Per l’Espresso 18.5/ 20 e “… raffinato, carezzevole, sussurrato al gusto…” per il Gambero Rosso, 3 bicchieri e “…inconfondibile nei ricordi di mandarino ma soprattutto nell’interminabile scia salmastra….”. Ma proprio questa unanimità mi porta a riflettere sulla mia percezione del paradigma per eccellenza del sangiovese e al desiderio di confronto.
Fabio Pracchia
Immagine di copertina tratta da Jekyll & Hyde di Lorenzo Mattotti e Jerry Kramsky Einaudi tascabili Stile Libero 2002