Con quel nome, potrebbero sembrare i protagonisti di un fumetto o di un cartone animato: parliamo dei cosiddetti superfood, alimenti le cui caratteristiche nutrizionali assicurerebbero – il condizionale è d’obbligo – notevoli benefici alla salute di chi li consuma.
Quelli che vengono definiti superfood sono cibi che spesso arrivano sugli scaffali dei nostri supermercati provenendo dall’altra parte del mondo, sulle ali del marketing e di campagne di comunicazione ad hoc. Qualche esempio?
Le bacche di Goji, lo zenzero, la curcuma, il guaranà. «Il loro consumo è in crescita da alcuni anni e, in questo periodo di crisi dovuto alla pandemia di Covid-19, ancora più persone hanno cominciato a percepire come il cibo possa essere un generatore di salute» spiega Anna Patrizia Ucci, medico, storico fiduciario della Condotta Slow Food Oglio-Franciacorta-Lago d’Iseo e oggi membro del Comitato Esecutivo Regionale con delega all’area cibo e salute di Slow Food Lombardia.

«L’aumento del consumo di questi superfood, insomma, rivela un’attenzione crescente, da parte dei consumatori, rispetto alla possibilità di curarsi attraverso l’alimentazione. Tuttavia c’è un problema».
Quale problema?
«Il problema è che, applicando le logiche del mercato a un tema che ha a che fare con la salute – ovvero producendo con un approccio di tipo industriale e stimolando quindi il consumo – si rischia di vanificare la loro funzione rispetto alla salute stessa. Allo stesso modo, ne risente anche l’ambiente.»
In che senso?
«I superfood vengono scelti per le caratteristiche nutritive che possiedono, tuttavia il beneficio per la salute dipende da molti fattori, in primis dal modo in cui vengono coltivati: le piante, infatti, elaborano i micronutrienti come risposta alle proprie necessità di sopravvivenza. Alimentandoci assorbiamo questi micronutrienti: a volte in modo diretto (mangiando i vegetali), altre in modo indiretto (consumando la carne e i derivati di animali che, a loro volta, se ne sono nutriti). Il potere nutrizionale degli alimenti, insomma, è strettamente dipendente dall’ambiente d’origine e i superfood sono davvero tali solo se vengono da coltivazioni naturali, se sono stagionali e se il sistema commerciale rispetta il loro ciclo vitale.»

Si parla spesso di filiera corta e di km zero. Il “mangiare locale” ha effetti benefici anche sulla salute, oltre che sull’ambiente?
«Certo: l’essere umano ha imparato a soddisfare i propri bisogni nutritivi adattandosi all’ambiente in cui vive. Per funzionare correttamente, il corpo ha bisogno di determinati micronutrienti e l’uomo, a ogni latitudine, ha imparato a reperirli nel proprio ambiente. È da qui che nascono le diete tradizionali, locali e stagionali: sono diverse l’una dall’altra perché diversi erano gli ambienti in cui l’uomo viveva. Diete che, di conseguenza, non sono esportabili ovunque. In altre parole, l’uomo ha elaborato la capacità di trovare ciò di cui ha bisogno nel contesto in cui vive: questo non vale solo tra aree del mondo differenti, ma anche in Italia, a seconda dei suoi differenti ambienti naturali.»
Si riferisce, ad esempio, alla dieta mediterranea e a quella alpina?
Esatto: gli effetti benefici della Dieta mediterranea non sono gli stessi nelle persone che abitano un contesto alpino. Per quale motivo? Perché le persone che vivono in un ambiente alpino hanno sviluppato un tipo di adattamento e un metodo di assorbimento di micronutrienti a partire dalla biodiversità del luogo in cui vivono, che è diversa da quella mediterranea.
Il vero superfood, insomma, è il cibo locale di qualità, prodotto attraverso metodi tradizionali e cucinato secondo le ricette affinate nel corso del tempo. I Presìdi Slow Food, cioè produzioni locali che rispettano rigidi disciplinari, sono a tutti gli effetti superfood che fanno bene alla salute.
Lei è la responsabile del Presidio Slow Food della Sardina essiccata tradizionale del lago di Iseo. Anche in questo caso parliamo di un superfood?
«Ovvio, è il nostro superfood locale! Merito del metodo di pesca, della selezione dei pesci e del metodo di essiccazione tradizionale. Sono fattori che non riflettono soltanto la volontà di salvaguardare una tradizione culturale, ma che si traducono in efficienza ed efficacia nutrizionale, come testimoniato dagli esami microbiologici e nutrizionali che dimostrano come i prodotti tradizionali non siano solo microbiologicamente sicuri, ma anche privi di istamina.»
Il prezzo, spesso, è un fattore che influenza le scelte dei consumatori. I superfood come i Presìdi Slow Food costano più degli altri?
«Riprendo l’esempio della sardina del lago d’Iseo, il cui metodo di produzione tradizionale assicura una significativa concentrazione dei preziosi omega3: essiccata naturalmente all’aria e già sfilettata costa 70 euro al chilo. È tanto? Dipende: gli integratori di omega 3 che si trovano in commercio oscillano tra i 250 e i 500 euro al chilo. Ma non è soltanto una questione di prezzo: il nostro organismo assorbe più efficacemente i principi attivi se questi vengono assunti attraverso il cibo, invece che come elemento puro, cioè sotto forma di integratori.»
Tra le campagne e i progetti di Slow Food, ce ne sono due sulle quali le chiedo una riflessione riferita al rapporto tra cibo e salute: la prima è Slow Meat.
«La campagna Slow Meat invita a consumare meno carne, ma di migliore qualità: se gli animali pascolano liberamente e si nutrono delle erbe spontanee, saranno sani e la loro carne sarà ricchissima degli elementi nutritivi assunti proprio dai vegetali. È un ottimo esempio dell’importanza del cibo territoriale, ovvero del rapporto tra la dieta e il luogo in cui ci troviamo. Gli animali che crescono in allevamenti intensivi, al contrario, spesso vengono alimentati con mangimi e curati con antibiotici: in questo caso, noi stessi finiremo per assumere quelle sostanze, con effetti potenzialmente devastanti sulla salute umana.»
Il secondo progetto riguarda gli Orti in Africa.
«Stesso discorso: il progetto Orti in Africa ha notevoli risvolti per quanto riguarda la tutela della salute. Non soltanto perché consente di produrre alimenti con i quali sfamarsi, ma perché si tratta di alimenti originari del luogo. In altre parole, chi si occupa di questi orti coltiva la biodiversità locale che si è selezionata nel corso di millenni, adattandosi all’ambiente e che pertanto non richiede pesticidi o sprechi di acqua. Allo stesso modo, anche l’uomo si è adattato a ciò che la terra gli offre.
È bene ripeterlo: la relazione tra il luogo in cui si produce il cibo e le persone che in quel luogo vivono è stretta e ha a che fare con la salute sia dell’uomo sia dell’ambiente.»
A cura di Marco Gritti
m.gritti@slowfood.it
Slow Food lavora per promuovere modelli di produzione, trasformazione e consumo il più possibile sostenibili e sani sia per la salute individuale sia per il pianeta. Su questi stessi princìpi si basa la partnership tra Slow Food e Reale Mutua, avviata a Terra Madre Salone del Gusto 2018, concretizzatasi nel 2019 nel progetto Sostenitori Ufficiali di Slow Food Italia e a Terra Madre Salone del Gusto 2020.
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