Il negretto, negrettino o maiolo è un antico vitigno oggi quasi estinto, un tempo allevato in Emilia Romagna, come ci ricorda Pietro de’ Crescenzi nel suo celebre Trattato dell’Agricoltura. Caratterizzato da una bacca particolarmente scura e da una notevole resistenza all’oidio, veniva usato in uvaggio per conferire colore e robustezza. All’inizio del ‘900, in fase di ricostruzione post-fillosserica, era ancora ampiamente diffuso nella zona dei Colli Bolognesi, tanto che si stima che su 20.000 ettari vitati, oltre la metà fossero piantati a negretto. Negli anni ’60, con l’avvento della meccanizzazione, dell’industrializzazione del settore agricolo e del consumo di massa, alle varietà autoctone si preferirono quelle internazionali selezionate dall’impresa vivaistica, ritenute più produttive e resistenti, capaci di soddisfare le esigenze di un mercato in continua espansione. Soltanto negli ultimi anni si è cominciato a valutare gli effetti, spesso disastrosi, di questo modello di sviluppo centrato su una crescita scellerata, e con forza si è iniziato a parlare del valore della biodiversità e di pratiche agronomiche sostenibili. E’ all’interno di queste riflessioni che hanno preso corpo la difesa e il recupero dei vitigni autoctoni, emblema di una viticoltura orientata sulla valorizzazione delle risorse locali e a basso impatto ambientale. A questo proposito abbiamo intervistato Antonio Ognibene, vignaiolo dei Colli Bolognesi, da anni impegnato nel progetto di recupero del vitigno negretto.
D. Antonio, raccontaci la tua storia e da dove è nata la voglia di ridare dignità a questo vitigno
R. Avevo tre ceppi di negrettino all’interno di un vecchio vigneto di pignoletto risalente agli anni ’30. Mio nonno e mio padre Luigi mi parlavano spesso di quest’uva e di come fosse un tempo diffusa nelle nostre zone (insieme alla barbera concorreva alla composizione di quello che era chiamato rosso bolognese, un vino grosso, rustico e generoso), e così è nata la curiosità di provare a fare degli innesti prelevando il materiale da questi vecchi ceppi. Una decina di anni fa ho realizzato alcuni filari e, dopo aver effettuato delle microvinificazioni, ho piano piano dato vita a un vigneto. Oggi sono al quinto anno di imbottigliamento.
D. Cosa ci puoi raccontare in merito alla diffusione, fino agli anni ’60, di questo vitigno e alla sua successiva scomparsa?
R. Dagli anni ’50 abbiamo assistito nel nostro territorio alla diffusione massiccia del cabernet e del merlot che hanno progressivamente soppiantato l’autoctono negretto (ma anche la barbera) perché più difficile da allevare a causa del grappolo compatto soggetto a marcescenza e della buccia molto sottile, e anche perché estremamente esigente in fatto di esposizioni e terreno: dà buoni risultati se esposto a sud-ovest e su terreni con importante componente calcarea, mentre i vitigni internazionali si adattano maggiormente e con migliore resa anche a condizioni meno favorevoli e specifiche.
D. Quali sono le pratiche agronomiche e le tecniche che consentono a questo vitigno di dare il meglio di sé?
R. In base alla mia esperienza, ritengo che il cordone speronato sia la migliore forma di allevamento dal momento che favorisce una resa bassa, mentre questa varietà tende a essere piuttosto produttiva; inoltre l’inerbimento del vigneto diminuisce la vigoria delle piante, consentendo una maggiore concentrazione zuccherina. In prossimità della maturazione sono necessarie buone potature verdi per evitare anche il minimo ristagno di umidità, poiché la compattezza del grappolo ne favorisce il marciume. Mi sento ancora all’inizio di quest’avventura e quindi ritengo necessario procedere facendo prove e esperimenti sia in vigna che in cantina, nel tentativo di trovare le soluzioni migliori in grado di valorizzare questa varietà.
D. Attualmente siete pochi vignaioli virtuosi a credere in questa impresa…
R. E’ vero, e sarebbe importante che altri produttori facessero la scelta di scommettere su questo vitigno , ma con criterio. Voglio dire che non avrebbe alcun senso che diventasse una tendenza modaiola, o una semplice questione di profitto. Rivalutare un vitigno autoctono ha senso solo all’interno di un’operazione che voglia dare valore al territorio a cui questo appartiene, e alle particolari esigenze e specificità del vitigno stesso. Significa dunque piantarlo solo nelle zone più adatte e praticare una viticoltura naturale, l’unica in grado di preservare e valorizzare l’ambiente.