Fino a oggi ho parlato con Joško Gravner tre volte, tutte nella sua cantina in località Lenzuolo Bianco di Oslavia. Ogni incontro si è impresso nella mia memoria come un momento di crescita. L’ascolto delle parole di Joško ha iniettato di nuova linfa il modo in cui vivo la viticoltura, amplificando di un più compiuto senso agricolo il mio rapporto con il vino.
L’esperienza professionale di questo vignaiolo è una sorta di romanzo di formazione, con il vino protagonista di una progressiva crescita di personalità e indipendenza, impresse dal produttore friulano attraverso una sensibilità agricola fuori dal comune unita all’inquieto e continuo interrogare il senso dell’agire umano nell’immenso ciclo naturale. Da questo sguardo universale nascono i vini di Gravner, fuori da ogni schema poiché espressione di un intimo, quasi religioso, gesto agricolo.
Osservazione e capacità umane hanno calibrato nel tempo gli atti contadini rendendo l’agricoltura, disciplina perfetta di utile bellezza. Basta guardare con attenzione la campagna nell’arco dell’anno per rendersi conto come l’apparente naturalezza di ciò che si mostra sia in realtà frutto di un’incessante laboriosità dell’uomo. I sistemi di potatura delle colture, il modo di legare le viti, l’altezza dell’erba, fino alla disposizione degli attrezzi nelle rimesse o nei cassoni dei trattori; nel momento in cui riusciamo a cogliere questa verità incantevole, prendiamo coscienza che essa scaturisce dall’esperienza dell’uomo custodita e trasmessa di generazione in generazione. L’opera gigantesca della campagna italiana vive sulla quotidianità di milioni di gesti compiuti da secoli.
Sul gesto di bere dunque è bene riflettere, se almeno lo riteniamo strettamente legato al territorio agricolo di origine, l’ultima azione agricola se mi è concessa questa definizione. E Joško, guarda caso, qualche settimana fa, me ne ha dato l’occasione accogliendomi con un bicchiere di Ribolla Anfora dalla forma particolare: una coppa di vetro con due rientranze per assicurare la presa e regalare la sensazione di tenere il vino raccolto nella mano. Introiettare il vino prima di berlo. Non ho pensato subito queste cose. Ero concentrato nella degustazione della Ribolla. Prima di congedarmi Joško mi ha regalato due di questi bicchieri.
Quando, una volta a casa, ho aperto la scatola vi era un foglio con scritto:
L’idea di creare un bicchiere a forma di coppa, mi è venuta per la prima volta nel 2000 quando andai nel Caucaso. Durante quel viaggio, organizzato per vedere le anfore che stavano realizzando per la mia cantina, visitai un monastero sulle colline di Tbilisi. In quella occasione i monaci, oltre a darmi il benvenuto con dei canti religiosi, mi servirono il loro Vino nelle coppe di terracotta. Quel gesto mi rimase impresso, bere del Vino in una coppa senza stelo è molto diverso che da un bicchiere, non vorrei essere frainteso, ma il gesto che la coppa ti impone verso il Vino è più intimo più rispettoso…più umile.
Joško
Ho confuso l’ospitalità con la degustazione non capendo il senso di quel bicchiere e quindi il significato di quel vino che mi era parso stupidamente splendido. Tenere in mano un bicchiere con lo stelo è un’abitudine replicata che rischia di annullare il contesto umano con il quale condividiamo la bottiglia, attirando tutta la nostra attenzione.
Cambiare il bicchiere, costringere a mutare i gesti ripetuti spezza l’automatismo implicando una nuova fusione con il vino e collocarlo nel flusso delle cose che accadono mentre lo beviamo.
Foto della cantina e del produttore (insieme a Valter Kramar del Ristorante Hiša Franko di Kobarid) di Lido Vannucchi, foto del bicchiere mia e si vede
Il bicchiere Gravner è stato ideato dallo stesso produttore, progettato dall’architetto Ignazio Vok e realizzato a mano da Massimo Lunardon.