La lettera scritta un anno fa dall’enologo Umberto Trombelli è stata ripresa recentemente da alcuni critici italiani come Roberto Gatti e Daniele Cernilli. Quest’ultimo ha intitolato l’editoriale dello scorso lunedì, su Doctor Wine, Orgoglio enologico (link).
La missiva che credo originariamente fosse apparsa su Facebook consiste in una sorta di difesa del ruolo enologico “criminalizzato”, secondo l’autore della lettera, in questi anni di diffusione del vino naturale. Vi invito a leggerla tramite il link pubblicato sopra. Il contenuto misurato nelle argomentazioni e condivisibile su alcuni passaggi evidenzia aspetti con i quali non sono proprio in linea, come questo: “Mi fa male vedere criminalizzare l’enologia in generale da chi di enologia non sa un fico secco”.
Secondo Trombelli quindi l’enologia può essere discussa solo nell’ambito scientifico. E chi l’ha detto? Il ruolo dell’enologo è quello di contribuire alla realizzazione del vino, cosa che possono fare più o meno tutti, con o senza laurea; c’è chi lo fa bene, chi lo fa male e via dicendo ma per fortuna non è obbligatorio che questo processo sia affidato a un dottore. Il vino si è sempre fatto e oggi, sempre per fortuna, vi sono organismi preposti al controllo sanitario e di legittimità, secondo le varie tipologie, del liquido prodotto. In più il vino ha a che fare con tanti aspetti dell’esperienza che travalicano la semplice correttezza formale, ma di questo ho già parlato più volte (link).
E più sotto: “L’uso di lieviti identificati come veloci e sicuri attivatori della fermentazione, l’uso di batteri malolattici, magari ottenuti dalla conservazione in cantina nell’anno precedente, l’uso dei solfiti in modo corretto e non invasivo, non è il male. La barrique e il contenitore in legno in genere sono nati per uno scopo: affinare, illimpidire e stabilizzare naturalmente il vino; non conciarlo su un gusto di legno! Tutte queste sono tecniche e strumenti che l’uomo ha escogitato nei secoli per migliorare e rendere fruibile nel tempo il vino”.
Nessuno impedisce a Trombelli di fare il vino come meglio creda ma si deve prendere atto, e non per forza gradirle, che in questa epoca vi sono nell’enologia mondiale istanze diverse, impegnate nella ricerca di una tecnica di esecuzione alternativa rispetto a quella proposta dalla scienza enologica, priva degli elementi ritenuti fondamentali, per alcuni tecnici, alla qualità del vino. Sul discorso vecchio e consunto sull’uso della barrique, mi ricordo un tempo nel quale l’ultimo pensiero degli enologi fosse illimpidire e stabilizzare attraverso il piccolo fusto di legno; questo semmai era usato per concentrare e profumare il vino a dismisura seguendo pedissequamente la moda vigente.
L’ultimo passaggio prende in considerazione il mercato: “Tanti miei colleghi non possono dire lo stesso perché sul mercato del vino non ci sono solo i vini famosi, ci sono anche i vini normali, quelli che si bevono tutti i giorni, come si beve una semplice birra; perché c’è anche un consumatore che qualche volta vuole bere soltanto un buon vino senza fare elucubrazioni se sta bevendo un Cabernet o un Sangiovese. Ci sono dei consumatori novizi che per arrivare a un vino importante devono educare il proprio palato iniziando a bere vini semplici. I vini semplici non sono dei veleni! Sono dei vini ottenuti da uva! I loro mosti sono vinificati con tecniche moderne e affidabili usando anche coadiuvanti e additivi alimentari autorizzati per ottenere anche vini “perfetti” e “piacioni”. E allora?”.
Un tipo di affermazione del genere mi pare pericolosa per la promozione della cultura del bere. La confusione tra bere semplice e vini “perfetti e piacioni” genera una tendenza alla standardizzazione del vino e a un abbassamento del valore. Se infatti la tecnica enologica consente di ottenere vini corretti, secondo la necessità del mercato, di fatto tradisce l’assunto della vocazione territoriale, sostenuto dallo stesso Trombelli nella sua lettera. Ecco allora che il vino semplice diventa un feticcio del grande vino al quale vuole tendere solo attraverso la tecnologia di cantina. Cosa sono altrimenti quei vini Docg, Barolo compreso, sugli scaffali degli autogrill a un costo irrisorio e avvilente? Vini semplici o grandi Vini?
Bere vino semplice significa invece qualcosa di molto più complesso rispetto al bere grandi vini perché necessita uno sforzo di approfondimento meno celebrativo e più passionale; significa avvicinarsi alla geografia umana e agricola che ha originato la vocazione enologica che oggi lodiamo in tanti. Un paesaggio che esiste ma è rimasto sotteso alla maggior fortuna dei campioni enologici. Significa, in definitiva, bere vino non degustarlo, magari sfuso, prodotto in piena continuità con il passato ma lavorato nel modo più pulito e corretto possibile. Ben venga l’enologia, purché rispettosa di questi principi.
A parte queste poche note, come detto, la lettera esprime concetti sensati. Non è infatti intenzione di nessuno attaccare il comparto enologico italiano meritevole di aver aiutato l’affermazione della qualità del vino in tutto il mondo. Soprattutto i concetti espressi da Trombelli possono aiutare un dibattito che potrà alimentare la cultura del vino anche per quelli come me non in preciso accordo con il suo pensiero.
Avrei però, al suo posto, scritto un preambolo storico e forse più obiettivo a questa difesa della categoria che appare, alla fine, fin troppo schierata, dicendo che: grazie all’influenza del ruolo dell’enologo negli anni post-metanolo si è cercato di diffondere una modalità standardizzata di vinificazione nel tentativo di appiattire sui tipi internazionali l’incredibile varietà della nostra viticoltura. Alcuni enologi hanno di fatto frodato la legge, con la connivenza di imprenditori agricoli, vinificando vini non consentiti dai disciplinari di produzione. Molti enologi operanti nelle zone più dense di imprenditoria viticola, come Toscana e Sicilia, hanno sostituito ciecamente varietà storiche con vitigni internazionali, salvo ricredersi dopo pochi anni e operando un repentino ripensamento. Solo recentemente l’enologia è ritornata a valorizzare le conoscenze agronomiche empiriche, giacimento fondamentale della nostra viticoltura e a esse conseguente.
Con un preambolo del genere la lettera sarebbe apparsa storicamente più attendibile; va bene l’orgoglio ma anche il pudore non guasta.