Persone, uliveti e paesaggi, ma anche, animali, prati, fiumi, boschi sono un simbolo di quell’agricoltura alternativa che in realtà, e questo ormai lo sappiamo, è modello più adatto ad affrontare le sfide attuali in una prospettiva globale
«Cosa succederà qui tra quindici anni? Cosa vedremo passando da queste colline?»
Lo chiedono gli appassionati olivicoltori della Setteponti, l’antica strada etrusca Cassia Vetus che collegava Fiesole ad Arezzo, e che si snoda a mezza costa tra il Pratomagno e la Valdarno Superiore, in Toscana.
Il paesaggio qui è fortemente connotato dalle olivete: ricorda il sindaco di Loro Ciuffenna, Moreno Botti, quando nel 1985, di notte, sentiva gli schianti della corteccia che si staccava dal tronco per la feroce gelata. Eppure quegli ulivi feriti si sono rigenerati e quelli che oggi vediamo sulle bellissime infinite terrazze sono i loro figli. E alle vicende degli ulivi si affiancano quelle umane: olivicoltori dai trenta ai settant’anni che esprimono con pervicace pacatezza il forte legame con questo territorio e con le comunità che lo abitano. Custodiscono competenze, esperienza e storie, riconoscono gli errori anche agronomici degli anni sessanta, hanno imparato, lo dicono loro, a fare un olio buono, eccellente in molti casi, e chiedono di poter continuare a lavorare e sostenersi con l’olivicoltura. Quanto vale tutto questo?
La scorsa estate è stata la più torrida degli ultimi 15 anni e a luglio è stato superata di 2° C la media stagionale: fenomeni atmosferici anomali e violenti che in pochi anni mettono a rischio l’evoluzione e l’acclimatamento millenario delle centinaia di varietà dell’olivo nel Mediterraneo.
Ma loro sono quei produttori di piccola e media scala che visitano i loro campi, gli oliveti, ogni giorno, in grado di mettere in campo pratiche agroecologiche tagliate su misura, che salvaguardano la qualità del prodotto in una prospettiva ecosistemica di legame e rispetto del terreno e del territorio.
Essere rete per salvaguardare il futuro
A Loro Ciuffenna, la settimana scorsa, ho partecipato alla riflessione collettiva di una rete che crede nell’olio e nella terra, una rete che incarna un modello agricolo capace di valorizzare e proteggere la biodiversità, di contrastare l’abbandono delle aree interne, di prevenire il dissesto idrogeologico, che permette alle comunità di sopravvivere e che salvaguarda il paesaggio, che integra il piacere della degustazione alla tutela del futuro. Una rete in grado di immaginare un sistema olivicolo e alimentare che garantisca il futuro invece di inficiarlo. Una rete che svolge un lavoro collettivo, in connessione, perché un lavoro individuale sulla sostenibilità è un buon lavoro, ma un lavoro comunitario come questo è politica, cioè “ciò che riguarda tutti”. Quanto vale tutto questo?
Uno di quei “sistemi locali del cibo” che possono funzionare da modello: un certo numero di attori, a vario titolo legati al tema dell’alimentazione, che collaborano per obiettivi comuni nell’ambito e nel rispetto delle loro diversità, siano essi produttori, cuochi, operatori del turismo, amministratori, gruppi di acquisto, un’intera comunità che fa parte di un ecosistema complesso e prezioso, ricco e resiliente, con la fierezza della propria identità e consapevole del ruolo ecosistemico delle persone ma anche degli elementi naturali: paesaggio, animali, prati, fiumi, boschi, ecc. Un ecosistema di gastronomia politica! Quanto vale tutto questo?
I progetti di Slow Food per la tutela della biodiversità olivicola
Slow Food ha creato un Presidio nazionale che promuove il valore ambientale, paesaggistico, salutistico ed economico dell’olio extravergine italiano e dell’olivicoltura e per valorizzare questo immenso patrimonio pubblichiamo ogni anno la nostra guida agli Extravergini italiani: uno strumento indispensabile per i consumatori che vogliono districarsi nel complesso e articolato mondo dell’olio, prodotto così importante e così quotidiano; ma la guida, per via del legame indissolubile con i luoghi di produzione, vuole essere anche un invito a visitare le realtà che fanno parte di un settore così strategico, una guida sempre più indirizzata a creare relazioni: tra produttore e consumatore, tra luoghi e prodotti.

Queste azioni si inseriscono in un percorso che vuole lavorare sull’olio come a suo tempo si è fatto col vino, un lavoro certo efficace ma lungo e complesso, a cui oggi si aggiunge la stringente emergenza ambientale.
D’altronde sappiamo che il sistema alimentare attraversa tutte le sfide e tutte le crisi che abbiamo di fronte: ma siamo convinti anche che in esso, nel sistema cibo stesso, ci sia la risposta.
In questa cornice, l’olio italiano esprime un patrimonio di biodiversità unico al mondo con 533 varietà di olive coltivate dalle Alpi alla Sicilia per un totale di 250 milioni di piante dalle quali nasce il maggior numero di oli extravergine a denominazione in Europa con 42 Dop e 7 Igp, oltre a decine di produzioni a km zero legate ai territori con una ricchezza di profumi e sapori che non ha eguali al mondo. Lo scorso anno il valore delle esportazioni di olio d’oliva Made in Italy nel mondo è cresciuto del 23%, nonostante i cambiamenti climatici e le tensioni internazionali legate alla guerra in Ucraina (report di Coldiretti “I sentieri dell’olio” 2022).
Sosteniamo gli olivicoltori di piccola scala per salvare l’ecosistema
Gli olivicoltori della Setteponti chiedono di poter continuare a lavorare: non vogliono assistenza ma strumenti. Per formare i lavoratori stagionali e garantire loro un inquadramento legale, hanno bisogno che gli venga riconosciuto quel ruolo ecosistemico – correttamente normato – che esercitano naturalmente nello svolgimento dell’attività agricola che è anche salvaguardia dei territori e custodia dei paesaggi, hanno bisogno che i loro oli eccellenti siano riconoscibili nel mare magnum dell’olio extravergine di oliva, in cui si rischia di smarrire la qualità sacrificandola all’altare della guerra dei prezzi. Serve che siano sostenuti con misure specifiche, per non trovarsi a competere sul mercato con quei giganti dell’agroindustria che lavorano massivamente sui quantitativi e sui prezzi.
Hanno bisogno in sostanza che si dia valore al loro incommensurabile lavoro: serve che siano visti, ascoltati, raccontati, serve che questa loro straordinaria reputazione, invece di restare “esterna” ed essere tributata solo dai turisti, dai gastronomi o dagli appassionati stranieri, sia diffusa all’interno delle loro comunità e si traduca in consapevolezza e sostegno locale agli olivicoltori.
D’altronde sarebbe miope pensare che il modello alimentare che produce cibo per scambiarlo su mercati azionari, che ci ha portato sull’orlo del baratro, possa fornirci una soluzione per la tempesta perfetta che stiamo affrontando: sono altri i modelli da immaginare e sperimentare, quelli ritenuti finora marginali e alternativi. Eppure, dobbiamo dirlo, tutt’ora la maggior parte del cibo prodotto sul Pianeta proviene da quell’agricoltura di piccola e media scala che viene definita curiosamente “alternativa”: quando forse dovrebbe essere chiamata primaria.
Un’agricoltura, una produzione alimentare, ad alto input di competenze, creatività, resilienza, e bassi input esterni (risorsa idrica, energia, sostanze chimiche), crediamo, ora più che mai, che sia il modello più adatto ad affrontare le sfide attuali in una prospettiva globale. Quanto vale tutto questo?
Di olio e di terra si deve poter vivere perché il giusto compenso ai produttori – quindi il giusto prezzo ai prodotti – è requisito irrinunciabile perché un’agricoltura sostenibile sia possibile. Sappiamo già che è necessaria.
Barbara Nappini, presidente Slow Food Italia