“Il Mediterraneo è l’infanzia del mondo”
diceva David H. Lawrence.
E, in una delle riflessioni più belle che abbia mai ascoltato, c’è chi ha aggiunto: «Negli oggetti e concetti, abiti e abitudini, passioni, vocazioni, ossessioni, religioni, tradizioni s’indovinano ancora i lineamenti di famiglia, anche se i fratelli e i figli se ne sono andati per strade diverse».
Le parole sono di Marino Niola che condivide con Elisabetta Moro vita e studi sull’antropologia del contemporaneo. A loro, definiti da molti “i moderni Keys”, ovvero coloro che hanno continuato le opere dei coniugi che scoprirono la Dieta Mediterranea, Slow Food ha affidato uno dei moduli più belli dell’edizione 2023 della Food to Action Academy 2023: il Mediterraneo.
Marino ed Elisabetta, condirettori del MedEatResearch, il centro di ricerche sociali sulla Dieta Mediterranea dell’Università “Suor Orsola Benincasa” di Napoli e del Museo virtuale della Dieta Mediterranea, solo pochi giorni fa hanno presentato i risultati di un nuovo progetto dedicato a uno dei patrimoni più importanti del Mediterraneo: la vite ad alberello di Pantelleria, alla quale è stato dedicato un proprio Museo virtuale voluto dal Parco nazionale Isola di Pantelleria e finanziato dal Ministero dell’Agricoltura. Abbiamo approfittato di questa occasione per riflettere con loro in attesa di incontrarli a Food to Action.
Che cos’è il cibo per gli antropologi?
Elisabetta: Beh, iniziamo col dire che anche gli antropologi (e le antropologhe) sono donne e uomini e quindi, per loro, come per tutti gli altri, il cibo è innanzitutto piacere. Dietro ogni cibo, però, ciascuno di noi dovrebbe riuscire a percepire il processo culturale che ne ha consentito la nascita e la fortuna. Ci sono cibi infatti che, più di altri, ci consentono di assaporare pezzi di storia, cibi che sono un invito alla riflessione, all’azione e – perché no – al gusto di saperne di più, come dice uno dei più celebri claim di Slow Food.
In questi giorni due polemiche hanno scalfito l’immagine della nostra gastronomia. La prima viene da Coldiretti che afferma che McDonald’s rappresenta l’italianità e l’eccellenza. Non siamo un po’ troppo distanti dall’idea di Dieta Mediterranea che invece ci rappresenta nel mondo?
Marino: Quando nel 2015 ho pubblicato Homo dieteticus mi sembrava evidente che le ansie di quella che viene spesso definita la “società contemporanea” si stessero tutte catalizzando sul cibo, facendolo divenire valvola di sfogo per le inquietudini del cittadino globale, trasformando il pasto da momento di godimento ad atto di espiazione. Beninteso, da sempre grassi e zuccheri hanno aiutato donne e uomini a venir fuori da crisi temporanee soddisfacendo il piacere dei sensi, ma quando il cibo diventa il nostro totem quotidiano vuol dire che c’è qualcosa che non va. McDonald’s, come tutti i grandi marchi, ha provocato la trasformazione del suo Big Mac in totem con l’obiettivo tutt’altro che nascosto di massimizzare i profitti.
Il fatto che, per realizzarlo, oggi impieghi prodotti italiani non basta in sé ad assolverlo del tutto dal peccato originale, perché essere italiano non vuol dire automaticamente essere “eccellente” e questo Slow Food lo sa benissimo.
Non a caso, non solo i cibi ma le pratiche sociali, l’artigianato, le filiere corte che sono alla base delle nostre eccellenze gastronomiche hanno pesato molto sulla scelta dell’Unesco che nel 2010 ha proclamato la Dieta Mediterranea patrimonio dell’umanità, proiettandola nel mainstream alimentare del mondo globale.
Più in generale, però, userei con molta cautela parole come “italianità” ed “eccellenza” perché – se decontestualizzate – possono assumere i significati più pericolosi e – se usate con leggerezza – possono diventare vuote.
Veniamo alla seconda questione. Un docente dell’Università di Parma ha definito la cucina italiana un’invenzione perché basata su prodotti “senza storia” o, meglio, recenti invenzioni del territorio nazionale. Come possiamo rispondere a queste affermazioni?
Elisabetta: Claude Lévi-Strauss, che è stato uno dei protagonisti indiscussi del pensiero del Novecento, ha avuto modo di spiegare in uno dei suoi saggi più noti, “Razza e cultura”, che non esiste un popolo senza storia. E lo stesso credo si possa dire per il cibo, che è sempre frutto della cultura e delle contaminazioni di una società. Cosa vuol dire allora “cucina italiana”? Francamente, credo che le motivazioni che hanno spinto il Ministero della Cultura e quello della Sovranità Alimentare a candidare all’Unesco, piú precisamente, “La Cucina Italiana tra sostenibilità e diversità bioculturali” siano rintracciabili in un percorso ben delineato già con il riconoscimento della Dieta Mediterranea ottenuto nel 2010: Ancel Keys e Margaret Haney, gli “scopritori” della Dieta Mediterranea, la consideravano infatti un sistema dinamico che comprende l’intera cucina italiana.
Possiamo dunque dire che, al pari della Dieta Mediterranea, la cucina italiana è globale da sempre, perché è fatta di mescolanze, di prestiti, incroci, contaminazioni. Anche il piatto più tradizionale, la più identitaria delle tipicità, hanno dentro la traccia dell’altro.
Non è un caso che molti degli ingredienti base delle nostre gastronomie vengano da Paesi lontani. Sono degli stranieri che ci mettiamo nel piatto. E guai se non ci fossero. La cucina italiana abbraccia dunque la tavola e la politica, le identità e le sensibilità, le tradizioni e le vocazioni. È la prova generale dell’umanità di domani. E il mito dell’autoctonia, o peggio l’autolesionismo storiografico di qualcuno, sono ormai cosa buona solo per chi vuole banalizzare ogni riflessione sul tema.
Chiudiamo con una riflessione più generale che ci faccia pregustare il nostro incontro a Food to Action: cos’è stato il Mediterraneo nella storia, cosa è diventato oggi e cosa invece auspichiamo possa essere domani?
Elisabetta: Allora faccio anche io una riflessione più generale. “Dieta” deriva dalla parola greca díaita, che significa stile di vita. Ma anche ricerca di equilibrio. E persino “cabina della nave”. Nell’antichità la cabina della nave era il luogo in cui si collocava il timoniere, colui che stabiliva la rotta, o meglio la condotta dell’imbarcazione. Dieta indica, dunque, la direzione che diamo alla nostra esistenza. La strategia che adottiamo per vivere in armonia con noi stessi e con l’ambiente che ci circonda.
Il Mediterraneo è – e deve continuare a essere – la nostra dieta, soprattutto se vogliamo salvaguardare quel patrimonio enogastronomico che generazioni di abitanti del Mare Nostrum ci hanno consegnato e che è sostanzialmente una “condotta della condivisione”. Per usare un termine molto caro a Slow Food.
Marino: La storia del Mare Nostrum è una storia di mescolanze, di prestiti e di incroci. E la Dieta Mediterranea, al di là delle differenze fra nazioni e culture, riflette questa apertura all’altro. Del resto, la cucina è aperta per definizione. Perché́ anche il piatto più̀ tradizionale, la più̀ identitaria delle tipicità̀, hanno dentro la traccia dell’altro. Sono il frutto di un matrimonio misto.
A pensarci bene, la maggior parte delle cosiddette tipicità̀ alimentari, quelle che fanno il vanto di un Paese e trasformano la terra in terroir, vengono da fuori. Qualche volta come immigrati clandestini, guardati con diffidenza e tenuti ai margini della cucina prima di conquistare le glorie della tavola e di finire, come accade oggi, canonizzati da marchi come il DOP. Quando un popolo adotta un cibo, sparisce ogni differenza tra figli e figliastri. A tavola come altrove dunque, siamo tutti mescolati, almeno da qualche millennio. Lo dimostra la storia delle culture e delle colture mediterranee. Basti pensare alla migrazione e allo scambio di tecniche, di cultivar, di manufatti tra le diverse sponde di quello che i Romani ribattezzarono il Mare Nostrum.
Il mare di mezzo è, di fatto, un ponte liquido che unisce e separa i popoli affacciati sulle sue sponde. È un melting pot di umanità, di culture e di gastronomie. Sempre lo stesso e sempre diverso.
Perché, tra Creta e Gibilterra, Cagliari e Atene, Gerusalemme e Roma, Venezia e Costantinopoli, Napoli e Barcellona, Palermo e Beirut, l’officina della storia ha prodotto una galassia di identità. Filosofie, economie, tecnologie, mitologie, gastronomie. Costruite l’una sull’altra, l’una dopo l’altra, l’una contro l’altra. Eppure quel nucleo incandescente, che i millenni hanno frammentato ma non cancellato, riaffiora negli elementi comuni, che hanno fatto del Mare Nostrum un bacino di differenze, ma anche di corrispondenze. Insomma, un minimo comun denominatore di mediterraneità esiste. E resiste, come un intrico di radici profonde, ai mille incontri e scontri, sovrapposizioni e contrapposizioni che hanno trasformato la Mesogea, letteralmente lo specchio d’acqua in mezzo alle terre, come lo chiamavano i Greci, in un teatro di odissee. Peregrinazioni, invasioni, contaminazioni, migrazioni. Fughe e ritorni che hanno in Ulisse, in Enea e in Gilgamesh il lontano paradigma mitologico di una storia nostra e non più nostra. Difficile da riconoscere, ma indispensabile da conoscere. Per non dimenticare chi siamo. E non trasformare Itaca in una patria incomunicante, una cittadella impaurita affacciata su un Mare non più Nostrum, ma Monstrum.
a cura di Antonio Puzzi, a.puzzi@slowfood.it