Quasi il 30% delle imprese agricole è costituito da titolari donne, eppure la rappresentanza nel settore è tuttora pressoché interamente maschile.
…in particolare riconosciamo, favoriamo e valorizziamo il fondamentale contributo che le donne apportano in termini di conoscenza, lavoro e sensibilità in ambito familiare, comunitario e sociale.
Dichiarazione di Cheng Du, Congresso internazionale Slow Food in Cina, 2017
In questa giornata non posso non tornare sulla Dichiarazione del Congresso Internazionale di Slow Food che si è tenuta a Cheng Du nel 2017. Questa frase è stata inserita nel documento con l’obiettivo di dare voce alle donne che in agricoltura si impegnano a seminare, allevare, produrre, raccogliere e infine nutrire: prima forma d’amore che dal femminile, venendo al mondo, riceviamo. Un legame intrinseco, quello tra femminile e cibo, non sempre evidentemente in termini di potere, quanto piuttosto in termini di naturale intimità.
Nella concretezza del quotidiano, sappiamo che quasi il 30% delle imprese agricole è costituito da titolari donne, eppure la rappresentanza nel settore è tuttora pressoché interamente maschile: «Se siamo il 30% delle imprese, ci spettano il 30% delle risorse», dicono le produttrici.
Ma quante donne partecipano ai tavoli dei decisori? Il numero determina se si tratti di eccezione o norma. Quante volte sentiamo dire: “è la prima” presidente, prima ministra, cancelliera… Sottolineando l’eccezionalità della circostanza: ma chi è che parla, di chi è lo sguardo che osserva?
La Fao ha rivisto la Politica sull’uguaglianza di genere, il documento che dovrebbe portare alla parità tra donne e uomini in termini di accesso e opportunità in agricoltura, sicurezza alimentare e nutrizione. È stato stabilito che sono necessari:
- leadership e partecipazione ai processi decisionali nelle istituzioni e nelle organizzazioni rurali tramite ruoli riconosciuti, investimenti e programmi;
- equi diritti all’accesso delle risorse produttive, verso un’agricoltura sostenibile e per lo sviluppo rurale;
- pari diritti ai servizi, all’accesso al mercato, ad un lavoro dignitoso e ad un trattamento retributivo equo;
- riduzione del carico di lavoro per le donne, mediante l’accessibilità a pratiche, infrastrutture, tecnologia.
Ma noi viviamo in un paese dove, ancora nel ‘900, la donna ideale nelle campagne veniva definita così: “Zampe di lepre, ventre di formica e schiena d’asino” (proverbio cit. in Wilson P., 2011). Una condizione di subordinazione codificata, vicina agli animali, nell’ambito della famiglia d’origine prima e successivamente rispetto al marito; subordinazione che si traduceva concretamente in un carico di lavoro disumano, pochissime interazioni esterne, remunerazione più bassa rispetto agli uomini (legittimata anche a livello normativo tramite la Legge Serpieri), una forza lavoro flessibile senza diritti e sempre disponibile. Chiarisce Perry Wilson: “Lontano dall’essere una forza di appoggio (co-adiuvante), le donne assumevano un lavoro continuo e fornivano un contributo essenziale per l’economia rurale e la sopravvivenza della famiglia rurale”.
E ancora oggi, se si ascoltano le testimonianze delle donne che si fanno chiamare con orgoglio “contadine”, raccontano di carenze strutturali, di strade, scuole e servizi che mancano, di difficoltà nell’accesso al credito e alla terra, di scarsa rappresentanza e di tutti quei pregiudizi sulle loro capacità così duri a morire. Ed è significativo che le politiche legate all’infanzia siano narrate e percepite ancora come “a sostegno delle donne”: escludendo senza esitazioni gli uomini dalla condivisione del carico familiare, che rimane completamente in capo alle madri.
Questo fardello lo si avverte sulle spalle, ma le femmine non ne sono più solo schiacciate: lo stanno usando come strumento di consapevolezza, rivendicano spazio e tempo per esprimere le proprie potenzialità, incarnano una carica innovativa che si attiva collettivamente e sono in grado di interpretare processi di crescita e di cambiamento in una dimensione – necessaria e preziosa – comunitaria.
La voce e i modi del femminile sono una risorsa di tutti: dirigersi verso modelli “altri” può significare passare da relazioni di forza e prevaricazione, a rapporti basati su comprensione e accoglienza: non è proprio comprensione e accoglienza ciò che ogni adulto maturo vorrebbe incontrassero sul loro percorso le bambine e i bambini del Pianeta? Abbiamo il potere di deciderlo e praticarlo: da subito.
Non basta più un cibo buono pulito e giusto: serve un mondo buono pulito e giusto per tutte e tutti.
Possiamo costruirlo insieme: il contributo di ognuno di noi è fondamentale, scopri qui come unirti alla nostra rete.
Barbara Nappini, Presidente Slow Food Italia
b.nappini@slowfood.it