Nonostante ricerche che ne evidenziano la pericolosità per la salute e l’ambiente e la raccolta di milioni di firme da parte dei cittadini in tutta l’Europa, l’Unione europea non ha ancora posto fine all’uso del glifosato.
La questione sull’impiego dell’erbicida più usato al mondo è approdata nei giorni scorsi sul tavolo del Comitato permanente per le piante, gli animali, gli alimenti e i mangimi, che non ha trovato un accordo sulla bozza di regolamento della Commissione europea che prevedeva il rinnovo dell’utilizzo per altri 10 anni. La decisione è slittata a novembre. Se nemmeno in questa occasione si prenderà una posizione unitaria, interverrà a metà dicembre direttamente la Commissione europea. Quindi fino ad allora sui cittadini europei che, in più occasioni, si sono espressi contro l’uso del glifosato, pende la spada di Damocle di un possibile rinnovo dell’utilizzo sino al 2033 (dopo la proroga di 5 anni già avvenuta nel 2017).
L’Italia dice sì, ma a quale rischio?
Non bisogna mai abbassare la guardia perché si sta giocando pesantemente sulla nostra pelle per avvantaggiare pochi (ma potenti). In questa occasione, il voto del nostro governo a favore dell’uso del glifosato non è passato inosservato e per molti stride con la volontà di difendere le produzioni interne contro i rischi di un superficiale uso di erbicidi in altre parti del mondo.
In questo specifico caso, si predica bene e si razzola male, si è smarrita la rotta per una conversione agroecologica coerente con gli auspici di chi ha creduto al Green Deal, alla Farm to Fork, alla Biodiversità 2030 che rischiano di diventare solo un pezzo di storia mai realizzata. Il glifosato è cosa seria, e di fronte alle cose serie va profuso ogni sforzo per garantire la salute dei cittadini, dell’ambiente, e quindi dei suoli, dell’acqua, di ogni declinazione della nostra biodiversità.
La scienza parla chiaro: il glifosato è un pericolo
E che il glifosato sia cosa seria lo dimostra anche l’impegno della ricerca scientifica che negli ultimi anni ha voluto indagare per capire se e quanto questa molecola, considerata preziosa e irrinunciabile dall’agroindustria, sia in definitiva davvero pericolosa. Ci aveva già pensato un gruppo di ricercatori europei, che dopo un lungo studio dimostrò che i residui di glifosato potevano essere rilevati nel 99% della popolazione francese che viveva in aree sottoposte all’uso dell’erbicida. Altri studi, negli Stati Uniti confermarono un’associazione tra l’esposizione al glifosato e il suo potenziale cancerogeno.
Proprio qualche giorno fa, sempre dagli Usa è arrivato uno studio che ha evidenziato la presenza di residui di erbicidi, tra cui glifosato, nel 98% delle urine di giovani ragazzi con negativi effetti neurocomportamentali. E ancora, la presenza di residui di glifosato nei mangimi utilizzati nell’allevamento industriale comporta una conseguente presenza di erbicida nelle deiezioni e, quindi, nel letame la cui distribuzione sul terreno come fertilizzante organico finisce per limitare la crescita delle colture, talvolta anche in regime di agricoltura biologica.
Non è una coalizione di ambientalisti a dire queste cose, è quella scienza peer reviewed che tanto viene cercata quando si tenta di sminuire ciò che dicono coloro che hanno a cuore l’equilibrio degli ecosistemi e che riconoscono nei principi dell’agroecologia l’unica risposta per la produzione di cibo idoneo al consumo. Come se la scienza possa dire cose avulse dall’evidenza dei dati. E i dati sono che il glifosato è un principio attivo diffuso per alleggerire il lavoro dei campi, ma a un prezzo altissimo che non verrà mai pagato da chi produce e, quindi, tende ad essere trascurato.
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