Nelle ultime 4 settimane, grazie alla Challenge On My Plate, abbiamo imparato insieme cosa significa davvero cibo buono e pulito. Abbiamo ascoltato storie interessanti dalla rete Slow Food e agito insieme per scegliere un cibo buono e pulito.
SE NON L’HAI ANCORA FATTO, ISCRIVITI QUI
PERCHÉ NON È FINITA!
Continua il viaggio di Slow Food e Slow Food Youth Network attraverso le tavole di oltre 3.000 giovani in tutto il mondo. Questa settimana ci domandiamo cosa vuol dire cibo giusto e perché è importante!
Ecco tre nuove storie per capire il GIUSTO!
Carlo Sumaoang
Carlo Sumaoang ha 34 anni, vive nelle Filippine e di mestiere… di mestiere fa svariate cose: lui, responsabile marketing dell’azienda di famiglia che produce fertilizzanti biologici, nel 2016 ha fondato MNLGrowkits, una startup che vende kit di coltivazione: «Semplici scatole fornite di tutto il necessario per iniziare a coltivare le piante» spiega. Ma è anche lui stesso agricoltore.
«Spesso sento dire che il cibo “giusto” abbia a che fare con chi lo coltiva – dice Sumaoang, che ricopre anche la carica di presidente di Slow Food Youth Network (Sfyn) Filippine -. Anche se lo trovo lusinghiero, visto che io stesso faccio l’agricoltore, per me il concetto di cibo equo non parte dall’uomo, ma dalla terra, dal suolo che usiamo per coltivare le nostre piante. Essere equi, insomma, significa assicurarsi di non usare prodotti o strumenti che compromettano il futuro del nostro suolo». Non basta: secondo Sumaoang, un cibo giusto è un cibo che assicura una vita degna alle comunità dove viene prodotto: «È impossibile parlare di equità se si guarda al tema da una sola prospettiva. È importante indossare i panni dei diversi stakeholder e cercare di comprendere il loro significato di questa parola». Riassumendo in una sola frase: «Equità è assicurarsi che tutti i soggetti della catena ottengano dalla produzione alimentare le stesse opportunità».
Opportunità, dunque. Quelle che, nelle Filippine, spesso mancano: «Siamo considerati un paese agricolo, ma la nostra industria agricola risulta molto arretrata rispetto ai nostri vicini» ammette. «Molte delle famiglie più povere delle Filippine sono impiegate nel settore agricolo, ma il sostegno da parte del governo è poco: trovo sconvolgente quanto sia difficile, per gli agricoltori, non solo prosperare ma addirittura sopravvivere».
Al centro del discorso, inevitabilmente, c’è la questione dei prezzi: «È frequente che i produttori si trovino di fronte a intermediari che, in modo opportunistico, comprano i loro prodotti ad un prezzo molto basso. Chi coltiva, quindi, si trova a guadagnare una miseria – prosegue Sumaoang -. Ciò non solo influisce solo sulle condizioni di vita dei contadini, ma compromette anche il futuro delle loro famiglie: capita che anche i loro figli, fin da piccoli, siano costretti a dare una mano nelle aziende, non potendo quindi frequentare la scuola».
Proprio da giovani come Carlo può arrivare l’esempio per un futuro diverso: «Quando ho iniziato la mia avventura nel mondo agricolo ho avviato una battaglia per cambiare il modo in cui i giovani guardano all’agricoltura – spiega -. Prima di avviare MNLGrowkits, abbiamo fatto un sondaggio: domandammo a 100 millennials di Manila, la capitale delle Filippine, che cosa pensassero dell’agricoltura. Le risposte ci hanno scioccato: quasi l’80% di loro ne ha un’opinione negativa, alcuni ci hanno detto che “non fa per me, è sporca”; altri hanno obiettato che “si possono facilmente comprare le verdure al supermercato”. Poi c’è la mia risposta preferita: “L’agricoltura non è cool, non posso postarla sul mio Instagram”. Voglio cancellare questo stigma, facendo sì che l’agricoltura sia accessibile e persino “instagrammabile“. L’augurio è che i più giovani si rendano conto che l’agricoltura può essere divertente e gratificante».
Teresa Santiago
Teresa Santiago è un’attivista brasiliana: fa parte di Slow Food ed è coordinatrice di Dois Riachões, l’insediamento nel sud dello stato di Bahia dove circa 150 persone, da anni, vivono e combattono la propria battaglia per veder riconosciuto il diritto alla sovranità alimentare e all’autodeterminazione.
Qual è un cibo giusto, secondo me? Un cibo che nasce da uomini e da donne contadini, un alimento che abbia la vita come valore fondamentale, perché la produzione alimentare ha risvolti sociali, ambientali e produttivi. Personalmente credo che il cibo giusto nasca dall’agroecologia: è quello che facciamo noi a Dois Riachões e che fanno in molti qui in Brasile. Stando ai dati dell’Istituto brasiliano di geografia e statistica (Ibge), le aziende agricole a gestione famigliare producono infatti il 70% del cibo complessivo.
La classe politica brasiliana, invece, crede a un’idea di sviluppo basato sull’agribusiness, che significa deforestazione, inquinamento delle falde acquifere e perdita delle risorse naturali. Questi, secondo me, sono gesti iniqui: il cibo che nasce da pratiche di questo genere è un cibo non giusto.
La prima volta che ho preso coscienza dell’impatto sociale del cibo è stata nel 2006, quando si è cominciato a parlare del progetto di trasposizione del fiume São Francisco. A quei tempi presi parte alla mobilitazione popolare per dire no al piano: lungo le sue rive del fiume vive tantissima gente, persone che hanno bisogno di cibo e d’acqua, mentre il progetto del governo porterebbe benefici soltanto ai grandi proprietari terrieri. È per questo motivo che sono entrata a far parte del movimento sociale chiamato Movimento dos trabalhadores, assentados, acampados e quilomboas da Bahia, impegnato nella lotta per una riforma agraria e giustizia sociale.
Uno dei risultati dei nostri sforzi è l’insediamento di Dois Riachões, una comunità che riunisce giovani, provenienti da diverse regioni, che hanno a cuore le questioni agricole. Per noi è una gioia enorme vedere i frutti di Dois Riachões: la battaglia ha portato le famiglie coinvolte a conquistare la libertà attraverso la terra, la produzione agroecologica e la vendita di prodotti alimentari.
I nostri obiettivi per il futuro? Continuare le battaglie di questi anni: opporci all’uso di prodotti agrochimici e di sintesi e promuovere leggi a sostegno dell’agroecologia e, più in generale, supportare politiche pubbliche che tengano conto delle comunità rurali.
A chi mi chiede un piatto, o un prodotto, per me speciale rispondo che ce ne sono tanti, e sono quelli che mi riportano alla mia infanzia: essendo figlia di una famiglia di pescatori, certamente dico i pesci del fiume São Francisco. E poi la manioca e le sue preparazioni, come le crepes di tapioca con zucca e fagioli dall’occhio.
Yara Dowani
Yara Dowani è la co-fondatrice e portavoce della fattoria Om Sleiman, una comunità agroecologica che rappresenta il primo progetto comunitario a favore dell’agricoltura in Palestina. Yara inoltre, gestisce anche un ostello a Ramallah, dove i volontari possono andare per imparare le buone pratiche agricole e sostenere a loro resistenza.
«Per me un cibo è giusto se è pulito, locale e sano per l’organismo, se è ugualmente disponibile e accessibile per tutti, se i contadini e i produttori in generale ricevono quello che meritano per I loro lavoro: riconoscimento, rispetto e un salario equo. Significa che I consumatori sanno da dove viene il loro cibo e hanno libertà di scelta riguardo ciò che mangiano e consumano. Qualsiasi cosa di diverso è ingiusto.
Durante il mio primo corso di permacultura ho imparato che il posto da cui proviene il nostro cibo e quello in cui cresce non sempre corrispondono all’immagine che avevo nella mia testa di una piccola fattoria con una coppia di contadini felici e qualche gallina che scorrazza in giro. Ho imparato che la maggior parte delle colture sul mercato sono piene di prodotti chimici, pesticidi, coltivate in fattorie a monocultura, e non sono nemmeno locali!
Dopo questa presa di coscienza ho iniziato a mettere in discussione tutto ciò che avevo sempre dato per scontato,. Ho dovuto disimparare, domandandomi da dove viene ciò che compro e cercando di scegliere sempre il locale. Ho iniziato a leggere di più sull’agricoltura, il suolo e l’allevamento e ho fatto volontariato in Spagna per un progetto di permacultura.
La fattoria Om Sleiman offre un esempio di agricoltura e allevamento giusti sia per gli agricoltori che per I membri. Offre soluzioni alle sfide che tutti gli agricoltori affrontano a livello globale, e in particolare in Palestina. Inoltre tutela gli agricoltori attraverso una rete di supporto rappresentata dalla stessa comunità che compra ciò che viene prodotto dalla fattoria e rende più semplice la comunicazione diretta tra agricoltori e consumatori.
È meglio anche per i consumatori che possono facilmente sapere da dove viene il loro cibo, ricevere un cesto di verdura fresca e biologica ogni settimana, avere un progetto da sostenere e fare volontariato.
La fattoria e i suoi componenti hanno protetto questo terreno che è sempre stato sotto la minaccia di annessione da parte della colonizzazione israeliana; per il semplice fatto di esistere quotidianamente su questa terra, e producendo su di essa, abbiamo reso possibile rigenerare il suolo e aumentare anche il numero di alberi, facendo rivivere la zona.
Il prossimo passo per la fattoria Om Sleiman è quello di rigenerare sempre più terreno per aumentare la nostra produzione e soddisfare la crescente domanda di prodotti. Per farlo abbiamo bisogno di risorse economiche e di persone, visto che la terra è stata trascurata per molti anni. Finora abbiamo rigenerato 0,3 ettari su un potenziale di 1,5, producendo cibo per un massimo di 35 persone. Vogliamo anche aggiungere altri prodotti ai nostri panieri come uova, formaggio, latte, pane, miele, frutta. Forse arriverà un giorno in cui i nostri membri non dovranno comprare nulla dal negozio di alimentari!
Il mio cibo preferito è l’Akkoub (Gundelia tournefortii). È una pianta spinosa perenne, simile al cardo, che in Palestina cresce a primavera inoltrata. Trovarlo, raccoglierlo, pulirlo e cucinarlo è un processo lungo, e avviene tutto in una breve stagione. Nel 2017 stavo esplorando i campi per scoprire i cibi selvatici palestinesi e ho incontrato una donna da Deir Ballut con una profonda conoscenza delle piante. Abbiamo passeggiato nsieme nella valle, lei ha raccolto alcune cose da assaggiare e mi ha insegnato i loro nomi. Una di queste era l’Akkoub, questa pianta spinosa che non penseresti mai che possa essere commestibile. A casa sua, poi, mi ha mostrato come togliere le spine e cucinarlo con cipolla e olio. Mi ha raccontato come durante la stagione dell’Akkoub avrebbe attraversato l’area occupata, nella parte di Palestina storica, dove non le è consentito entrare senza un permesso delle autorità israeliane, che è quasi impossibile da ottenere. Li ha raccolto l’Akkoub ed è tornata indietro con alcune altre donne, un viaggio di due ore a sud di dove abita. Un viaggio rischioso visto che le autorità israeliane vietano ai palestinesi di raccogliere questa pianta, e danno multe a chiunque lo faccia.
L’Akkoub ha un’importanza storica, culturale e tradizionale per noi palestinesi che siamo stati sradicati dalla nostra terra. La storia di questa pianta è la storia di un popolo che cerca, nonostante tutto, di coltivare il cibo e far fronte a circostanze difficili.
On My Plate è la sfida proposta da Slow Food che ci permette:
Connetterci con altre persone a livello locale, nazionale e globale che hanno a cuore la creazione di un mondo migliore attraverso il cibo.
Imparare di più sul cibo buono, pulito e giusto.
Agire insieme e condividere le esperienze con tanti attivisti in tutto il mondo.
Durante le sei settimane dedicate alla sfida On My Plate Slow Food vi guiderà in un viaggio che rivelerà il percorso che il cibo deve percorrere per arrivare alle nostre tavole, il suo significato in diverse culture e latitudini, il rapporto con l’ambiente. Per non perdere nemmeno un contenuto iscrivetevi qui onmyplate.slowfood.com