Se un albero cade nella foresta e nessuno è lì e può ascoltarlo, questo farà realmente rumore? Si chiedeva G. Berkley.
Tempo dopo qualcuno, parafrasando G. Berkeley si chiedeva «Se un albero cade nella foresta e la televisione non lo riprende, quell’albero è veramente caduto?»
Ma adesso quegli alberi sono sotto gli occhi di tutti. Le immagini lanciate dalla stazione spaziale orbitante, scattate da un astronauta italiano e rilanciate su tutti i posibili mezzi di comunicazione.
Il presidente del Brasile Bolsonaro, che ha fatto ripartire il disboscamento, dal suo mondo discronico, da parte sua rivendica: “La foresta è nostra, non appartiene al mondo”.
Ricardo Galvão, lo scienziato che ha rivelato le sue menzogne, è ha accusato di mentire e danneggiare l’immagine del Brasile: Licenziato.
Accusato anche lui, forse, di fare politica, invece di occuparsi di scienze. Come se le due cose non fossero venute inesorabilmente a coincidere. Come se tutto non venisse, evidentemente e sempre più velocemente a coincidere.
La politica, la scienza, la cultura. Il buono, il pulito, il giusto.
Ora come mai è chiaro che la centralità del cibo, che la nostra associazione ha individuado come perno del proprio agire è evidente. Ora come non mai è chiao come ambiti del sapere sono intrinsecamente connessi. Fino alla fine.
Buono pulito e giusto. La tavola, la foresta Amazzonica, gli indigeni.
Non possiamo in questo momento fare a meno di ricordare come all’ultimo congresso di Cheng Du è stato preso un impegno nei confronti dei popoli indigeni “principali custodi della biodiversità (il 67% dell’agrobiodiversità del pianeta è concentrato nei loro territori) che da secoli lavorano per conservarla. Le loro conoscenze, generalmente sottovalutate, sono essenziali per affrontare le sfide globali come il cambiamento climatico, l’insicurezza alimentare e le disuguaglianze;
Gli incontri della rete Indigenous Terra Madre hanno evidenziato l’urgente necessità di promuovere e proteggere i sistemi di produzione alimentare dei popoli indigeni valorizzando il loro approccio olistico e rafforzando i legami con tutto il movimento Slow Food.
E di come Noi, rappresentanti della rete di Slow Food e di Terra Madre provenienti da 90 Paesi del mondo, riuniti in Congresso a Chengdu in Cina, abbiamo dichiarato il nostro impegno a sostenere e supportare la voce e la partecipazione dei popoli indigeni dentro il movimento Slow Food e la rete di Terra Madre.
In particolare, ci siamo impegnati a sostenere e facilitare le attività e i processi volti a:
–‐dare forza alle voci dei popoli indigeni all’interno della comunicazione di Slow Food;
–‐intensificare l’advocacy e le azioni di sensibilizzazione in difesa dei popoli indigeni e delle loro culture;
–‐promuovere la visione olistica dei popoli indigeni sul cibo (strettamente collegato alla terra, all’identità, alla spiritualità, alla medicina tradizionale e molto altro ancora) e creare opportunità di scambio attraverso le quali la rete possa apprendere dalle pratiche e dalle diverse prospettivedelle popolazioni indigene;
–‐contrastare il landgrabbing, l’omologazione culturale e le azioni che vadano contro il principio del «libero, previo e informato consenso» dei popoli indigeni;
–‐sviluppare progetti sul campo assieme alle comunità indigene in difesa della biodiversità e di chi la tutela;
–‐sostenere i giovani indigeni e le loro comunità nella difesa e nella promozione del loro patrimonio alimentare;
–‐aumentare le opportunità di partecipazione, incontri e scambi, proseguendo l’impegno organizzativo degli incontri della rete Indigenous Terra Madre e altri eventi su scala locale, regionale e internazionale, dedicando particolare attenzione agarantirel’equapartecipazione di giovani e donne;
–‐promuovere la trasmissione dei saperi, il rafforzamento delle capacità, con particolare attenzione alle donne e ai giovani e il lavoro di rete conaltre organizzazioni.
Non possiamo che essere, quotidiamente, di fronte alla coscienza di questo disastro, mossi a continuare a fare politica occupandoci di cibo, di cibo buono pulito e giusto, che non si limita al buon abbinamento di un vino con un pecorino a latte crudo, ma anche delle politiche alimentari internazionali, delle problematiche ambientali, delle piccole azioni quotidiane che devono diventare massa critica. L’80% della deforestazione globale è provocato dall’agricoltura industriale e le scelte alimentari sono certo tra le abitudini più facili da cambiare.
L’Amazzonia sta bruciando. E’ la notizia del giorno anche se non è propriamente una notizia, anzi, rischia, come tante emergenze, la banalizzazione dovuta al piacere dello scandalo tanto cara ai social.
«Qualcuno dei miei colleghi pensa che ci debba essere una sorta di figura terza, un intermediario: che lo scienziato faccia la sua ricerca e poi siano altri che debbano raccontarla al pubblico. La mia esperienza è invece che si rischia di perdere troppo in questo passaggio». Dice lo scienziato Giorgio Vacchiano in un’intervista.
Secondo lui il problema non è che le persone non sappiano cosa succede, anzi: rovesciargli addosso nuovi dati senza inserirli in una storia, senza parlare al cuore oltre che al cervello rischia di non portare a niente.
Che l’Amazzonia sia quotidianamente, da secoli, scientemente sfruttata, non è una novità.
Negli anni 70 Edoardo Galeano scriveva un libro, Le vene aperte dell’Aerica Latina, breve, ma denso, con il suo ineguagliabile stile tra il romanzo e il giornalismo. Descriveva un’America Latina sfruttata, umiliata, depredata. Dall’altra parte dell’oceano, intanto, con l’oro e l’argento del Sudamerica si costruiva il Rinascimento. Quelle vene oggi sono ancora aperte.
Se i roghi stanno suscitando un’ondata di commozione globale, per l’alto valore simbolico dell’Amazzonia e per il suo ruolo nell’assorbimento di anidride carbonica e nella capacità di arginare il riscaldamento globale, una riflessione sul costo ambientale degli allevamenti intensivi e sugli effetti che hanno a livello mondiale appare un’urgenza sempre più difficile da rimandare (Stefano Liberti autore del documentario Soyalism, su internazionale).
Da pochi giorni è uscito un nuovo libro di Jonathan Safran Foer, “Possiamo salvare il mondo prima di cena. Perchè il clima siamo noi. Rimanda, per qualche capitolo, di dire una verità scomoda, che anche Al Gore non ha voluto dire nei suoi noti documentari, che nemmeno noi, forse, vogliamo dire con così tanta chiarezza.
Non sappiamo con certezza se l’allevamento sia una delle cause principali dei cambiamenti climatici o la causa principale dei cambiamenti climatici. Sappiamo che non possiamo occuparci dei cambiamenti climatici senza occuparci dell’allevamento degli animali.
CER Slow Food Toscana