Circa due anni fa per la prima volta ho visitato la Georgia. È successo per caso: fui invitato all’ultimo momento da una persona appena conosciuta, senza un progetto e senza un obiettivo, aggiungendomi a un gruppo di giornalisti. Accettai perché mi piacevano i vini georgiani contadini, i vini in anfora. Ma non avevo idee precise. A quella prima visita ne sono seguite altre due, e altre ne seguiranno; anche perché la Georgia è diventata un’ambita destinazione dei viaggi didattici dell’Università di Pollenzo.
La Georgia mi ha rapito – non solo il vino, la vita stessa. Scrivere di Georgia, però, rischia di essere già banale: in questi ultimi anni il vino georgiano è diventato tendenza quando non moda. Se ne sta scrivendo, in tutto il mondo, e ci sono già ottimi articoli anche in Italia, e naturalmente gli imperdibili libri di Alice Feiring e di Carla Capalbo. Quindi ho deciso di proporre alcuni appunti/spunti che, grazie alla mia esperienza georgiana, hanno attraversato la mia riflessione filosofica che è sbocciata nel mio ultimo lavoro, Il gusto non è un senso ma un compito. Epistenologia II, recentemente pubblicato.
Ecco qui:
Epistenologia è nomade, ma in Georgia si è trovata benissimo. Forse epistenologia è un po’ georgiana, della Georgia rurale dove il vino è compagno della vita degli uomini da moltissimo tempo, aderente al procedere dell’esperienza quotidiana condivisa e comune. Dopo la mia prima volta laggiù ho rimesso in questione qualcosa a cui non avevo ancora molto pensato. Per molto tempo, come tanti studiosi, ho infatti creduto che la fioritura recente dell’interesse della filosofia, della cultura, delle accademie e delle scienze tutte di ogni ordine e grado per la gastronomia e per il gusto fosse segno di una finalmente riconosciuta attenzione.
La Georgia mi è venuta in aiuto e mi ha chiarito l’errore che avevo compiuto: come spesso succede quando si guarda il mondo da un’unica prospettiva acquisita, la quale produce quelle confortevoli narrazioni che finiscono anche nella storiografia evolutiva (“finalmente oggi diciamo così, perché ci siamo accorti che le cose stanno così”), avevo invertito i termini in gioco. Il fatto è che ero tutto rivolto alla novità dell’emersione di un tema e alle intenzioni che tutto ciò produceva, senza sentire al contempo che il vero problema era il tema. Il “boom” ha a che fare coi temi, ma siamo proprio sicuri che ciò corrisponda anche a un plus di valore? Proviamo a fare una microstoria del gusto girando lo sguardo al contrario: a un certo punto, per tutte le ragioni di storia e sociologia delle idee che sappiamo, il cibo ed il vino sono diventati temi di studio e l’interesse per loro è diventato un interesse analitico. Però i georgiani delle campagne che ho conosciuto e con i quali abbiam condiviso tanto vino non lo trattano come un tema e oggetto d’analisi, anzi ne parlano poco pur vivendoci insieme da sempre e bevendone assai: forse non gli danno valore? Non è proprio così, per loro anzi il vino è della più grande importanza. Durante le supra, i banchetti rituali che organizzano per celebrare ospiti, ricorrenze gioiose e funerali financo, il vino ha un ruolo cruciale: viene consumato in grandi quantità secondo un ritmoscandito da molti brindisi coordinati da un Tamadà, il maestro della cerimonia che dirige i discorsi, pronunciandoli o facendoli pronunciare agli altri alla tavola. E nella situazione siffatta che cosa si dice? Non si parla del vino come oggetto da valutare, non è un tema e meno che mai lo si disseziona in termini di qualità sensoriali. Ci si apre piuttosto alla vita nel suo significato più ampio, si esprimono speranze, si ricordano affetti, ci si espone al momento col vino, il vino attraverso, il vino che può anche venir celebrato come bevanda che lega ed unisce, non come profilo oggettuale, astratto e slegato dal resto.
L’incontro col vino è un annodarsi di linee, non di entità ontologicamente fisse e isolate. È immerso in una scena di senso fluida e aperta, per cui è un incontrarsi di fianco, di lato. In questa atmosfera, emerge la realtà polifonica del gustare senza tema col vino. La polifonia è un’altra importante tradizione georgiana, non a caso praticata durante le supra: canto unitario che non è tuttavia un’indistinta fusione di voci. La polifonia non è una giustapposizione di diverse phoné, giacché esse si allacciano l’una con l’altra in una logica non congiuntiva (e… e… e…) ma contrappuntistica (con… con… con…). Così ogni singola voce è parte di un tutto che essa contribuisce a creare ma che la trascende senza annullarla.
E ancora:
Una sera in Georgia sono con dei giornalisti, molto competenti e professionisti; siamo stati invitati da un gruppo di piccoli allevatori, famiglie rurali che fanno vino per autoconsumo da sempre ma le cui anfore interrate hanno cominciato a fare tendenza da un po’ da Copenaghen e New York. Ci hanno preparato una “degustazione” on demand perché quei giornalisti ci scrivano un pezzo. È una cantina in aperta e profonda campagna, contornata da strade sterrate, ciottoli e fango. Veniamo accolti in una stanza che mi ricorda un garage dove si radunano elettrodomestici vecchi, ferri sparsi ed attrezzi, barattoli pieni di tutto, qualche anfora sparsa, bottiglioni senza etichetta, scaffali e un tavolo marcio. Su questo tavolo sghembo una serie di bottiglie, contando son tredici, con quattro-bicchieri-quattro per noi, che effettivamente siam quattro. Dopo brevi presentazioni di rito dei vini – i georgiani, si è detto, ne parlano poco o nulla come oggetto tematico – i professionisti chiedono all’interprete-guida dove si farà la degustazione.
Il posto è questo, è la sua cantina, risponde illuminata dalla lampadina appesa col filo al soffitto. Ma allora i bicchieri, chiede il più competente di tutti, possiamo almeno avere un bicchiere per vino, come è corretto quando si vuol comparare? Richiesta tradotta, trafelato un signore nativo esce e va in una casa, poi ritornando rimediati un po’ di bicchieri – non quanti i vini; bicchieri sbocconcellati, tutti diversi, qualcuno un po’ opaco. Nel frattempo, due ragazze georgiane portano sul tavolo marcio pane, formaggi e verdure, perché in Georgia il vino si beve col cibo. A questo punto il super professionista ha un moto di stizza: basta, I am working here, che per favore si tolgano subito tutti i cibi di mezzo, perché il vino si deve valutare professionalmente e oggettivamente da solo, senza mangiarci o annusando altra roba. Emerge allora il sommesso pudore del dilettante: spiazzati da tanta autorevole e anche autoritaria competenza, i signori georgiani sbaraccano il cibo dal tavolo, lasciandolo solo con l’oggettivo illusorio di qualche bicchiere messo in fila, un po’ di bottiglie, una tavoletta per scrivere, un naso una bocca e una mano che si concentrano seri. Io osservo tutto con molta attenzione, assai divertito; assaggio tutti i vini dallo stesso bicchiere e sto in piedi, appoggiato a una lavatrice dismessa, accanto a uomini di cui non capisco nemmeno una sillaba. Me la ricordo come l’esperienza di assaggio più educativa e potente che ho fatto negli ultimi anni. Aprendo la percezione al fluire dell’esperienza dove tutte quelle linee raccolte al momento non erano oggetti e persone ma processi ed allacci, ero passato dalla competenza alla compassione.
Infine:
Dalla Georgia abbiamo iniziato il viaggio e in Georgia lo concludiamo. Un buon Tamadà, maestro di supra che dirige il simposio, beve molto senza ubriacarsi e se questo succede si dovrà vergognare. Una strategia che si tramanda in Georgia e che mi pare utile e buona perché l’ho provata e ha funzionato (tutto quello che qui è stato scritto l’ho direttamente sperimentato e vissuto), consiste nel fare attenzione a non raddoppiare subito il godere del vino con un secondo bicchiere, estendendo piuttosto quello del primo il più a lungo possibile. Allungare il godere di ogni bicchiere fino all’estremo non significa centellinare né bere poco, men che mai degustare; significa invece verticalizzare la scoperta atmosferica come memoria, eco e fluire di immagini, dilatando così il tempo su una grana spaziale diffusa, quell’atmosfera dove il vino (si) distende. La quantità del bere dipenderà così da quanto tempo si può sviluppare e creare, con le linee ed i nodi che ciascuno ha da fare e disfare.