La Thomas Hardy è tornata. Finalmente. Nata nel 1968 per celebrare il quarantesimo anniversario della morte dello scrittore inglese Thomas Hardy (non fate il mio errore, lasciate stare i romanzi vittoriani di Hardy, una delle letture più faticose che abbia mai fatto…), la Thomas Hardy’s Ale è diventata un mito mondiale, nonostante una storia piuttosto travagliata.
Il primo batch, prodotto nel novembre dell’anno precedente, doveva essere un’edizione unica (oggi la chiameremmo one shot), tanto che dopo il primo lancio la birra non fu più riproposta fino al 1974, con ricetta modificata e un aumento significativo del grado alcolico, con Original Gravity passata da 1110 a 1125. Dal 1974 al 1999 la birra fu prodotta stabilmente, pur con qualche “buco” in alcuni anni e doppie produzioni in altri (si può trovare tutto il dettaglio qui), dal birrificio Eldridge Pope di Dorchester, la stessa città dello scrittore Hardy.
Nel 1999 il birrificio cessa la fabbricazione e la birra sembra perduta per sempre. Nel 2003 però il marchio viene acquistato dall’importatore americano George Saxon, che affida la rinascita dell’etichetta al birrificio O’Hanlon del Devon e la Thomas Hardy rinasce. Fino al 2008, quando viene annunciata un’ennesima fine. La mitica birra è di nuovo estinta, e questa volta la sensazione è che la breve storia di O’Hanlon (solo sei release, da molti ritenute minori rispetto a quelle di Elridge Pope, anche se il confronto con versioni molto più invecchiate non è ovviamente possibile) porti ad una fine definitiva.
Il 19 luglio del 2012, invece, i fratelli Sandro e Michele Vecchiato fanno il colpaccio e firmano l’acquisizione del marchio di proprietà di George Saxon. La notizia fa subito il giro del mondo, la mitica birra rivivrà, e sarà prodotta nel Regno Unito. Da allora sono passati più di quatto anni, un tempo piuttosto lungo, legato alla difficoltà di trovare un produttore disponibile (molti birrifici hanno gentilmente declinato l’invito) e ai tempi di produzione. Tre giorni fa è stato finalmente presentato il vintage 2015, prodotto a luglio e imbottigliato a dicembre dello scorso anno presso il birrificio Meantime di Londra, che nel frattempo – per la felicità dei wrestler birrari (come si autodefiniscono) che dominano i social – è stato prima acquisito da SAB Miller e poi passato al gruppo Asahi.
Perché tanto interesse e tanto rumore per una birra di 11,7 gradi alcolici, impegnativa, difficile da trovare (del vintage 2015 sono stati prodotti 100 ettolitri, circa 30 000 bottiglie, per tutto il mondo, sono quantitativi molto piccoli) e che sicuramente non va oltre una piccola nicchia di appassionati? Perché la Thomas Hardy’s Ale è una birra culto, canone stesso dello stile denominato barley wine – letteralmente vino d’orzo – e marchio fortissimo, uno dei più conosciuti dagli appassionati e uno dei pochi che si presti a lunghi invecchiamenti (almeno 25 anni di evoluzione in bottiglia, come dichiarato in etichetta).
Nel 1977 Michael Jackson le dedica quasi una pagina intera nella prima, fondamentale, edizione di The World Guide To Beer e la fa istantaneamente diventare – potenza del Maestro – un mito internazionale, una birra assolutamente da trovare e assaggiare. La inserisce nel capitolo delle Old Ale, assieme ad altri importanti nomi come Prize Old Ale di Gale e Old Tom di Robinson’s. Scrive il grande Michael: «This type of beer, usually dark, malty but just slightly less rich or heavy than barley wine, and rather drier, might best be described as an old ale». In effetti il termine barley wine era, all’epoca, considerato piuttosto come un sottoinsieme delle imperial stout, in grado di poter accogliere anche birre meno scure.
Martyn Cornell, nel suo splendido Amber Gold & Black, del 2010, inserisce barley wine e old ale nello stesso capitolo e descrive il termine barley wine non come uno stile, ma come una generica denominazione applicabile ad ogni birra forte: «Strictly, barley wine is not a style since the term is, today, applied to any strong beer of any type, that is from around 7 per cent abv upwards, except for black beers, where the hefty imperial stouts are kept (with no particultarly logical reasoning) in a category by their own. ‘Barley wine’ thus covers the strongest beer in a range of different styles: strong sweetish Burton or ‘winter warmer’ old ales, strong stock bitter and strong pale, amber and brown ales».
Il termine barley wine è in effetti relativamente recente, inizia a essere usato stabilmente solo a partire dal ventesimo secolo, e si intuisce dalle fonti quanto solo negli ultimi anni sia stato codificato come uno stile vero e proprio, cedendo alla necessità – esigenza che continuo a non capire e che, anzi, più il mondo birrario evolve più mi sembra anacronistica – di categorizzare ogni birra in uno stile ben preciso e definito.
Nell’ultima edizione del BJCP si legge: «Although often a hoppy beer, the English Barleywine places less emphasis on hop character than the American Barleywine and features English hops. English versions can be darker, maltier, fruitier, and feature richer specialty malt flavors than American Barleywines. Has some overlap British Old Ale on the lower end, but generally does not have the vinous qualities of age; rather, it tends to display the mature, elegant signs of age».
Interessante notare la differente scrittura (“barleywine” in America, “barley wine” in Inghilterra) e sottolineare come per gli States anche il barleywine sia generalmente una birra molto luppolata, mentre nel Regno Unito il territorio è quello dei malti, responsabili di una grande ricchezza e un notevole “calore” olfattivo. Birre invernali nel grado alcolico e nei toni morbidi, avvolgenti dei malti. Dove però il luppolo gioca una parte assolutamente non trascurabile, non tanto nell’equilibrio gustativo, quanto nel ruolo legato all’invecchiamento. Negli esemplari giovani saranno avvertibili sia le note olfattive tipiche dei Goldings (pepate, terrose) sia soprattutto lo spigolo di amaro, spesso piuttosto evidente. Amaro che dopo qualche anno – almeno tre o quattro – di bottiglia tende a decrescere, lasciando il posto a note ossidative che donano grande eleganza al bicchiere.
Evoluzione che – mi sento di scommettere – avrà anche quest’ultimo vintage 2015 di Thomas Hardy’s Ale assaggiato lunedì scorso alla presentazione di Milano. Oggi è ancora molto giovane, nonostante i nove mesi di bottiglia (che potrebbero essere molti per un’altra birra, ma sono pochissimi per un barley wine di razza come questo). L’olfatto è già molto potente e ricco, offre le classiche note di melassa, caramello, frutta disidratata e marzapane, evidenziate da un evidente etilico e arricchite dall’accenno speziato dei luppoli. Un olfatto già quindi molto convincente (e molto pulito, in un certo senso più contemporaneo), anche se ancora privo delle complessità portate dall’ossidazione. In bocca è ricca, potente, avvolgente e etilica. Riempie il palato come poche altre birre e lo fa senza essere invadente o sbracata. Si avverte però la giovane età, evidente sul passaggio sul luppolo, non scorbutico ma ancora poco progressivo, con uno “scalino” ancora presente. Spigolo che sicuramente sparirà, con gli anni, in cantina, e che sono convinto lascerà il posto ad una birra straordinaria, da conservare con calma, senza fretta, e da stappare in un’occasione importante.