Le anfore e il vino. Tra passato remoto e futuro prossimo

IMG_3745La prima Convention internazionale sull’uso della terracotta in enologia si è svolta sabato e domenica scorsi presso l’Antica fornace Agresti a Impruneta, Firenze, uno dei centri italiani più importanti per la lavorazione di questo materiale. Artenova, azienda toscana specializzata nella realizzazione di anfore di terracotta a uso enologico, ha promosso l’incontro. La Terracotta e il Vino è stato un evento coordinato da Sergio Bettini con la consulenza tecnica dell’enologo Francesco Bartoletti e dell’agronono-enologo Adriano Zago, esponente di spicco dell’approccio biodinamico alla viticoltura.

 

Due giorni pieni zeppi di seminari, approfondimenti e degustazioni che hanno aiutato a inquadrare un mondo, come quello della vinificazione in terracotta, in sicura ascesa anche tra i nostri produttori. Il convegno di sabato, per esempio, dal titolo “La terracotta e il vino. Esperienze di vinificazione e affinamento dal mondo” ha allargato la prospettiva di molti che ritengono l’uso della anfore una semplice moda contemporanea.

 

Christophe Caillaud, direttore del museo gallo-romano di Saint-Romain-en-Gal di Vienne (Francia) ha ricostruito l’uso tradizionale dell’anfora nella vinificazione. Partendo da Areni (che coincidenza, vero? link), in Armenia, la terracotta si è affermata come vaso vinario di eccellenza per buona parte della storia della viticoltura, seguendo passo passo la diffusione della vite per tutto il bacino del Mediterraneo. Utilizzata fin da subito con funzione di trasporto (8.000 a.c. circa), la terracotta è poi stata impiegata, circa venti secoli prima di Cristo, come recipiente per la fermentazione. Interessante, in questa lettura storica, è il periodo in cui la ceramica ha subito la concorrenza delle botti in legno, provenienti dalla Retia ( regione alpina grossomodo associabile a Austria, Alto Adige, Baviera), di tradizione non mediterranea. La battaglia tra legno e terracotta, rivelatasi letale per l’uso dell’anfore in occidente almeno fino a oggi, si attesta intorno al primo secolo avanti Cristo.

 

I paesi originari delle anfore come Georgia e Armenia ancora oggi utilizzano questo materiale per la vinificazione. Il Professor Giorgi Barisashvili dell’Università di Agraria di Tibilisi è intervenuto forte di un sostanzioso contributo di immagini illustrando la lavorazione delle anfore. In Georgia questi contenitori (Kveri )(Kvevri) che arrivano alla capacità di 80 quintali di vino sono interrati per garantire il massimo isolamento. Nel suo intervento Barisashvili ha suggerito come le anfore costituiscono una sorta di grembo materno per il vino la cui forma permette la distensione armonica delle energie presenti nel liquido.

 

Più tecnico, e non poteva essere altrimenti, l’intervento affidato agli ultimi due relatori, Antonio Tirelli professore di Scienze viticole ed enologia all’Università di Milano e Luigi Armanino, dell’azienda piemontese Crealto, vicino ad Alessandria. Armanino ha condotto una tesi di laurea analizzando le differenze tra un affinamento in anfora e uno in botti di legno da 15 ettolitri, non nuove, dello stesso vino. Lo studio prende in esame solo l’affinamento del liquido. Dai dati emersi non vi sono notevoli differenze tra i due materiali impiegati, tranne in calo di acidità anomalo per un’anfora presa in esame. A chi faceva notare come a volte nelle anfore si assista a fenomeni di ossidazione repentina del vino, il professor Tirellli ha ribattuto dicendo che la porosità dell’argilla non è facile da misurare per cui risulta fondamentale l’ambiente circostante e quindi lo scambio con l’ossigeno.

 

Non ho propria voglia di mettermi a elencare ogni singolo vino assaggiato, con un ammorbante sfilza di sensazioni gustative personali. Più utile è capire come alcuni produttori si siano avvicinati all’anfora. Interessante da questo punto di vista è stato l’incontro con l’azienda agricola I Cacciagalli di Teano (Campania). Il piedirosso aziendale, uva che vive in riduzione nello stato solido e in quello liquido, ha trovato nell’anfora il materiale giusto per una necessaria, costante e non invasiva ossigenazione. Il vino assaggiato quindi ha mantenuto fragranza del frutto e un’insolita apertura olfattiva.

 

Magistrale invece l’uso dell’anfora dell’azienda abruzzese Cirelli. Trebbiano (toscano), Cerasuolo e un Montepulciano croccante, testimoniano la bontà del lavoro svolto dal giovane Francesco Cirelli. Anche per lui pare che la terracotta sia elemento in grado di centellinare ossigeno senza opprimere la luminosità olfattiva.

 

Poi c’è Elisabetta Foradori con tre annate di Nosiola Fontanasanta, tre di Teroldego Morei e Sgarzon. Al contrario delle aziende sopracitate Foradori usa anfore non di Impruneta ma realizzate da un artigiano spagnolo, le stesse che usa Cos in Sicilia. I vini di Elisabetta testimoniano un percorso di apprendimento che sembra giunto in una fase di maturità. Splendidi i vini della vendemmia 2012.

 

Se questi vini ubbidiscono a una grammatica gustativa condivisa, si deve imparare un nuovo alfabeto con i vini georgiani. Il Chardakhi della Iago’s Wines, piccola azienda georgiana, richiede un approccio culturale al vino che una degustazione a volo di uccello non può concedere. Ricordo la splendida traccia sapida di questo vino.

 

Infine l’incontro per la prima volta nella mia esperienza con il vitigno più antico del mondo, l’areni armeno. A donarmi questa emozione la Zorah Wines, azienda armena con cuore e competenze italiane. Un vino di bella articolazione, composto e balsamico. Mi aspettavo qualcosa di meno comprensibile e forse più ancestrale ma per la prima volta va bene così. Un supplemento d’indagine lo effettuerò il prossimo anno quando volerò nella culla del vino mondiale.

Foto di copertina tratta da winenews.it, foto manifestazione per gentile concessione Ufficio Stampa ArteNova