28 Agosto dal rifugio del Cavone verso Fiumalbo: “Laudato sii, fratello Appennino”
Da qualche giorno ho riposto gli scarponi, lavato i vestiti e rimesso lo zaino nell’armadio. Apparentemente il mio viaggio sull’Alta Via dei Parchi è concluso, ma da quando ho varcato la soglia di casa è iniziato il viaggio interiore elaborando le forti emozioni che mi ha procurato questo cammino di circa settanta chilometri, partito dal Poranceto e finito al passo dell’Abetone attraversando borghi senza tempo, boschi di castagni e di faggi ancora abitati dai fantasmi di chi li ha vissuti quando ti ritrovi a calpestare i loro stessi sentieri. La loro presenza è ancora forte, dalle mulattiere sulle quali ancora pare di sentire il respiro umido degli animali da carico che ti sfiora la pelle, alle carbonaie dove basta scostare col piede lo strato superficiale delle foglie per ritrovare il nero della lenta combustione senza fiamma che essi provocavano per produrre il carbone. A questo punto, tendendo l’orecchio, quando il rumore del torrente scompare nel fondo della valle, sembra quasi di sentire questi abitanti discutere, nei boschi, del loro diritto di utilizzarlo per scaldarsi e cucinare. Infatti, a quei tempi – e anche oggi, non dimentichiamolo – il bosco e i suoi prodotti erano fonte di vita sia per l’uomo che per gli animali da lui allevati. Si narra che ciascuno dei grandi castagni del Poranceto fosse in grado di garantire il sostentamento di una famiglia grazie alla farina di castagne. È facile ancora vedere, per occhi attenti, gli strumenti principali per ottenerla: gli essiccatoi e i mulini. Gli essiccatoi si trovano nei boschi, sono costruzioni di pietra a due piani separati da un canniccio sul quale venivano poste le castagne ad asciugare grazie al fuoco acceso al piano inferiore. Nel fondo delle valli, data la grande quantità di acqua disponibile per far muovere le macine, si incontrano invece i mulini: uno di questi è il mulino di Chicòn a Pavana.
(Michele Ferro lungo il cammino)
Silvano Bonaiuti e sua moglie, Maria Rosa Prandi, sono gli splendidi custodi di questo tesoro costruito da Francesco Guccini (nonno del famoso cantautore pavanese) nel 1881 a soli diciassette anni. Grazie alle parole di Silvano è facile immaginare di trovarsi nel mulino ancora in piena attività: le acque del Limentra, attraverso il bottaccio, alimentano le macine. Macine diverse servono per la molitura non solo di castagne, ma anche di orzo, grano e segale.
Dal mulino, per ritornare sull’Alta via dei Parchi, è necessario percorrere una strada da lungo tempo affollata di fantasmi: sono i pellegrini che camminavano sulla via Francesca della Sambuca per giungere a Fucecchio e da lì immettersi sulla via Francigena che li avrebbe condotti a Roma. A Ponte della Venturina, invece, riprende il cammino sull’Alta via che mi porterà al rifugio di monte Cavallo. Per raggiungerlo devo lasciare l’asfalto e inoltrarmi nei boschi, che sono prima composti da querce, poi da castagni e infine da faggi attraverso antiche strade selciate.
A un tratto, uscito dal bosco, scorgo tre croci di legno di castagno piegate dal vento e corrose dal sole. Esse sono poste a memoria di tre donne che, partite dal borgo di Case Trogoni alla volta di Porretta, perirono a causa di una tempesta di neve che le sorprese nel giugno di molti anni fa. In seguito a questa tragedia si decise di costruire, nel punto più riparato di monte Cavallo, una capanna che, nel corso del tempo, divenne l’attuale rifugio.
Oggi c’è la signora Maria Vivarelli a custodirlo, rifocillando i viandanti con gustosi piatti della tradizione ricavati da antiche ricette, quali, in particolare, le tagliatelle di farina di castagne condite con i funghi o la cacciagione. Le emozioni suscitate dai racconti di Maria, grande conoscitrice degli usi e costumi della valle del Randaragna, sono ancora forti, vive e presenti in quanto storie di abitanti di una valle isolata, gente che è sempre riuscita a sostenersi grazie alla loro capacità di coltivare e sopravvivere con l’utilizzo dei castagneti, di campi coltivati a granaglie e di orti. La mattina successiva, alla partenza da monte Cavallo verso il lago Scaffaiolo, in pieno sole appare agli occhi la verdissima valle del Randaragna, oltre alla quale si estende la teoria verde degli Appennini a perdita d’occhio, mentre all’orizzonte è possibile scorgere le città di Firenze e Prato.
Immergendomi in questi boschi, sul crinale che separa Emilia e Toscana, noto la costante presenza, che mi accompagnerà fino all’Abetone, degli antichi termini di confine che nel 1700 delimitavano i territori del Granducato di Toscana da quelli dello Stato Pontificio (che era nel bolognese). L’emozione è rafforzata dai racconti di Erica, la giovanissima ma tuttavia molto esperta guida CAI della sezione di Bologna, che ha fatto su questi territori la tesi di laurea focalizzando la sua indagine sugli usi civici – che mi spiega cosa rappresentano questi strani “sassi” consunti dalle intemperie (però ancora con scolpite e ben leggibili le date di posa) che spiccano tra le foglie cadute a terra.
Raggiunto il rifugio di Porta Franca, a 1580m, il sentiero si inerpica in quota e noto che i faggi sono passati dall’essere maestose presenze (come quello votivo che ho incontrato a Pian dello Stellaio) protese verso il cielo, ad alberelli delle dimensioni di un cespuglio. Avvicinandomi a monte Gennaio (la cui cima è 1814m) il bosco cede completamente il passo alle brughiere e alle mirtillaie, tra le quali, sotto ad un masso, appare la fonte dell’Uccelliera: Maria di monte Cavallo mi ha detto che non si secca mai. L’acqua che fuoriesce è molto leggera e fredda, berla direttamente da qua mi rigenera e da la carica necessaria a proseguire il cammino, oramai in pieno sole. Una decina di minuti dopo, aggirando uno dei contrafforti del monte Gennaio, davanti ai miei occhi appare in tutta la sua maestosità la parete sud del Corno alle Scale con i suoi gradoni di roccia. La carica datami dall’acqua è preziosa soprattutto per affrontare l’ultima salita del giorno, molto ripida, dal passo del Cancellino a 1630m fino al passo dello Strofinatoio a 1847m, che mi da grande soddisfazione perché il panorama che si può ammirare da questo punto è impagabile. Dopo tanta fatica non ho solo risalito la parete che ammiravo da lontano, ma finalmente riesco anche a vedere cosa c’è al di là: è il più grande dei circhi glaciali del Corno alle Scale. La visione del rifugio Duca degli Abruzzi è confortante per lo spirito ed azzera ogni fatica.
Una volta arrivato al rifugio mi accolgono i gestori, Antonio e Lucia, persone amabili e molto disponibili. Anche la loro cucina, tipica di montagna (polenta e tagliatelle condite con funghi e cacciagione), è molto curata e gustosa. Dormire nei rifugi di alta montagna, per chi non lo ha mai fatto, è un’esperienza molto particolare: infatti, non capita tutti i giorni di condividere il sonno ed i servizi con tante altre persone! La mattina è facile essere in piedi già prima dell’alba, uscire al buio e lì sentire l’ululato del lupo rompere quello che era il silenzio più assoluto. Rivolgendo lo sguardo a est, dal piazzale del rifugio, si rimane catturati dalla sagoma nera di punta Sofia (che ospita la croce del Corno alle Scale a 1939m) che si staglia in controluce, mentre man mano tutte le cime, dal Cupolino allo Spigolino fino al Cimone, sono già baciate dai raggi del sole.
L’ultima tappa è iniziata sulle rive del lago Scaffaiolo, con il sole già alto e con le immagini delle persone che hanno dormito in tenda e degli altri escursionisti che si riflettono sull’immobile specchio d’acqua. Da qui mi attende una giornata che immagino durissima: infatti il cammino del sentiero 00 è ben visibile già dalla partenza. Erica calcola i dislivelli che mi aspettano indicandomi tutte le cime che salirò: tra le tante, le più importanti sono Cima Tauffi (1798m) e il Libro Aperto (1936m), ma anche le altre non scherzano! In un continuo saliscendi, si segue il filo del crinale con un piede in Emilia e uno in Toscana per un totale di 700 metri in salita e 1100 in discesa per raggiungere il passo dell’Abetone a 1370m.
L’esperienza e le emozioni su questo tratto sono davvero impagabili: si incontra molta gente amante della montagna come Francesco di Maria e Annalena Cavara di Bologna, con i quali ho condiviso il pasto su uno sperone di roccia a strapiombo sulla valle della Lima qualche passo prima della vetta di Cima Tauffi.
Rimango colpito dall’estensione delle mirtillaie che ricoprono i versanti delle montagne; a questo punto esplorarle alla ricerca di qualche mirtillo da assaggiare ne esalta il sapore come nient’altro può fare! Nelle brughiere non ci sono soltanto i mirtilli ma spiccano anche i fiori bianchi dei cardi (Carlina acaulis) e quelli rosa del brugo (Calluna vulgaris); sotto le rocce sono ben visibili numerose tane di marmotte e il loro lavoro alla ricerca del cibo – che consiste in erbe, radici e semi – rivoltando il manto erboso.
La discesa dal Libro Aperto sul entiero 447 è molto particolare: è necessario, infatti, aiutarsi con una catena predisposta allo scopo per superare un balzo di roccia. A questo punto la discesa verso l’Abetone è più agevole, sembra quasi che si possano toccare gli edifici del passo, ma in realtà mi attendono altre due ore di cammino (tutte in discesa, per fortuna!).
Poco prima di monte Maiore, in località La Verginetta, il sentiero rientra nel bosco e dopo una ventina di minuti di cammino posso ristorarmi alla fontana della Verginetta. Da lì in breve tempo e su una strada forestale molto comoda, raggiungo il termine della tappa al passo dell’Abetone.
Mi ha colpito molto la civiltà dei frequentatori, testimoniata dalla pulizia dei posti: in tutto il mio cammino i rifiuti sono stati veramente scarsi, penso che sia fondamentale continuare a preservarne la bellezza e la pulizia.
In tutto questo cammino, fin dall’inizio e apprezzando la bellezza dei luoghi fino all’ultimo passo, mi è venuto spontaneo pensare a questo viaggio e alla contemporaneità dell’enciclica Laudato sì di Papa Francesco, con il commento di Carlo Petrini fondatore di Slow Food, che ci richiama a “saper guardare, con la stessa capacità di sorprendersi e intenerirsi per la bellezza del Creato” e al nostro compito di preservarlo.
Di Michele Ferro ed Erica Mazza
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Il percorso verso il Lago Scaffaiolo è vario e pieno di cambiamenti di panorami. Dopo una breve sosta al rifugio porta Franca arriviamo ai piedi del Passo del Cancellino oltre il quale vediamo il Lago e il rifugio Duca degli Abruzzi. Antonio e Lucia ci accolgono descrivendo la loro attività decennale che coinvolge svariati produttori di latticini freschi e altri prodotti. Alcuni di questi prodotto li assaggiamo alla cena al Cavone dove due cuochi di Chef to chef preparano l’ ottimo menù. Il tramonto e l’ alba al rifugio sono un spettacolo unico. Alla mattina partiamo sempre presto per non camminare nelle ore più calde. Il percorso è lungo e a tratti impegnativo, con corde fisse per superare alcuni passaggi su rocce. Nella discesa verso l’ Abetone attraversiamo boschi di conifere e di faggi, ricchi di mirtilli nelle zone prative. Arriviamo poi a Fiumalbo dove la cena è a base di funghi e parmigiano fondamentali per l’economia del territorio. Durante il comizio agrario vengono descritte le peculiarità del mirtillo che si raccoglie sulle pendici del Libro Aperto. La serata termina in compagnia di vari soci Slow Food provenienti da Bazzano. Terminiamo anche questo gruppo di tappe con la crescente consapevolezza che il nostro percorso risulti sempre più interessante e ricco di biodiversità.
di Pier Luigi Roncaglia