Prosegue il nostro viaggio nelle parole per festeggiare i trent’anni di Slow Food in Italia. Ogni sabato vi presenteremo una parola simbolo dell’associazione e ne ripercorreremo insieme la storia. La parola di oggi è contadini.
Contadini è una parola con una lunga storia. Da subito ha trovato la sua eco in «città». I contadini erano coloro che abitavano nel contado, cioè il territorio agricolo che stava intorno allo spazio urbano.
Più la parola città diventava positiva, moderna, ricca di fascino e promesse, più la parola contadino si distingueva per essere il contrario di tutto questo. Così, nel lungo periodo in cui non si metteva in discussione la positività delle città e dei sistemi di produzione ai quali sembravano inevitabilmente fare riferimento, la parola contadino è diventata sempre più sinonimo di marginalità, nel senso deteriore. Non solo la marginalità fisica ma anche quella culturale, quella della considerazione, quella economica, politica, sociale.
Al contadino si riconosceva, in ossequio a un vecchio adagio, finezza di cervello, ma in una società in cui la foggia e il brand delle scarpe stavano diventando centrali rispetto alle capacità di elaborazione di chi le indossava, quel riconoscimento sembrava più una graziosa concessione che un segno di rispetto. Espressioni come «braccia rubate all’agricoltura», riferite a scolari con poche speranze di successo, si sono diffuse proprio grazie alla convinzione radicata che per fare agricoltura non servisse cultura. E questo non era solo un sentire cittadino. Gli stessi contadini si sentivano parte di un modello perdente, dal quale tentavano di salvare le giovani generazioni. Ma il mito della città ha iniziato a vacillare, comportamenti alternativi hanno rivalutato scelte produttive e di vita che trovano nel legame con la natura, e dunque con la campagna, il loro fondamento. Grazie a una recuperata cultura del cibo, dell’ambiente, delle relazioni, la funzione e le potenzialità di un lavoro apparentemente destinato all’estinzione sono di nuovo al centro dell’attenzione. Le facoltà di Agraria oggi sono tornate a riempirsi, in controtendenza con l’andamento nazionale, e sono sempre più numerosi i giovani che, dal nulla, decidono di avviare esperienze produttive in ambito agroalimentare oppure di proseguire le attività “contadine” di famiglia dopo aver terminato gli studi. Contadino oggi significa anche questo: coraggioso, innovativo, testardo per convinzione e non per grettezza. Significa qualcuno per il quale non c’è separazione tra la vita e il lavoro, o meglio non c’è contraddizione. Scriveva nel 1938 Jean Giono: «Non si può sapere quale sia il vero lavoro del contadino: se è arare, seminare, falciare o se è nello stesso tempo mangiare e bere alimenti freschi, fare figli e respirare liberamente, poiché tutte queste cose sono intimamente unite e quando egli fa una cosa completa l’altra» (Lettera ai contadini sulla povertà e la pace, Ponte alle Grazie, 2010).
Poco tempo fa Carlo Petrini scriveva su La Repubblica: «Forse è questo l’asso nella manica che hanno i giovani rispetto ai loro colleghi contadini con qualche decennio in più: fanno rete, chiedono formazione e informazione, usano i vicini di casa o i social network, ma alla fine riescono a capire perché non dovevano potare quando hanno potato o non dovevano lavorare il pane in quel modo lì. E soprattutto sanno tante cose diverse: hanno formazioni in campo umanistico, ambientale, politico, economico. E decidono di darsi all’agricoltura, portando in dono quel che sanno e ricevendo quel che chiunque vorrà insegnargli. La domanda allora è: cosa aspettiamo? Cosa aspetta la nostra classe politica, la nostra classe dirigente, la nostra classe banchiera a occuparsi di questo settore? A mettersi a studiare questo ambito per fare in modo che parlare di Made in Italy non diventi, a breve, un parlare a vanvera? Cosa aspettano a capire che sta lì, in quei campi, in quelle mani, in quei cervelli e in quella voglia di sudare, l’identità di questo nostro Paese? Bisogna che quel mestiere torni a essere prestigioso e soddisfacente, che torni a essere uno dei mestieri prìncipi verso cui l’uomo naturalmente tende, e deve avere riconoscimento a livello sociale ed economico. L’era del “vai a zappare”, detto a chi non pareva particolarmente dotato per gli studi, è finita da un pezzo. Oggi a zappare ci vanno, ci vorrebbero andare, quelli che studiando hanno capito che è a partire dal cibo che si cambia il mondo, e si migliora l’ambiente, la salute, la qualità della vita di tutti».
Serve un modo nuovo, e forse antico, di intendere il cibo. I contadini hanno la risposta, è ora di fare la domanda.
(tratto da Mangia come parli di Cinzia Scaffidi, Slow Food Editore 2014)
Una domenica ogni due, noi e gli amici di Una parola al giorno trattiamo in parallelo una parola che riguarda la cultura del cibo – e non solo. Puoi leggere la definizione di Una parola al giorno a questo link.